venerdì 31 gennaio 2020

Il nuovo virus? Ripensiamo a Gregorio magno

In queste ore siamo tutti impauriti dal misterioso coronavirus che proviene dalla Cina. Ora che sono stati confermati dei casi in Italia ci sentiamo tutti più esposti e fragili. In realtà per me, il virus aveva già avuto una certa importanza, in quanto ha determinato il rinvio di un viaggio a Hong Kong che io avevo già programmato da un certo tempo. Ora la paura e il sospetto verso i cinesi provocherà qualche preoccupazione nella società, un panico che, siamo onesti, in parte è anche comprensibile. Tutti ci sentiamo indifesi di fronte all’ignoto, come può essere un virus, che non si può vedere. Anzi, in questo caso è anche peggio, in quanto anche le persone asintomatiche possono contagiare con lo stesso virus. Quindi, il pericolo è potenzialmente ovunque. Inoltre, il contagio non è certamente soltanto limitato alla popolazione cinese, in quanto anche coloro che recentemente hanno viaggiato verso la Cina possono essere veicolo di questo contagio, di qualunque nazione essi siano.
Mi viene allora in mente san Gregorio magno: “Egli avrebbe anche fatto cessare la peste che affliggeva Roma portando in processione un'icona che la tarda tradizione identifica con quella dell'Aracoeli” (treccani.it). Egli fu Papa quando a Roma c’era la peste. Ovviamente l’emergenza sanitaria attuale non è neanche paragonabile a quella del sesto secolo, ma pur vero che oggi proprio la grande interconnessione che esiste a livello globale ci rende ancora più esposti. Ritengo che dovremmo riscoprire l’importanza di invocare l’aiuto divino con processioni e litanie, così come si dice che san Gregorio magno ottenne la liberazione di Roma dalla peste con la visione dell’arcangelo che riponeva la spada. Per i nostri padri, esisteva un evidente dimensione liturgica, rituale, cerimoniale, di tutta la vita. Ogni cosa era posta sotto la protezione divina, le malattie, i raccolti, tutti gli eventi che scandivano la vita umana. Oggi noi abbiamo irrimediabilmente perso questa dimensione, e questo non ci ha fatto bene, anzi ci siamo gettati in un ignoto che ci fa ancora più paura. Abbiamo perso Dio, ma non abbiamo guadagnato nulla. 

Nel suo Commento al libro di Giobbe, san Gregorio magno afferma: “Nelle parole di Giobbe bisogna osservare attentamente con quanta abilità di ragionamento egli sappia concludere contro le affermazioni di sua moglie, dicendo: "Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?". È certamente un grande conforto nelle tribolazioni richiamare alla memoria i benefici del nostro Creatore, mentre si sopportano le avversità. Né ciò che viene dal dolore ci può scoraggiare, se subito richiamiamo alla mente il conforto che i doni ci recano. Per questo è stato scritto: Nel tempo della prosperità non dimenticare la sventura e nel tempo della sventura non dimenticare il benessere (cfr. Sir 11, 25). Chiunque gode prosperità, ma nel tempo di essa non ha timore anche dei flagelli, a causa del benessere cade nell'arroganza. Chi invece, oppresso da flagelli, non cerca al tempo stesso di consolarsi con la memoria dei doni ricevuti, è annientato dai sentimenti di sconforto o anche di disperazione. Bisogna dunque unire assieme le due cose, in modo che l'una sia sempre sostenuta dall'altra: il ricordo del bene mitigherà la sofferenza del flagello; la diffidenza circa le gioie terrestri e il timore del flagello freneranno la gioia del dono. L'uomo santo perciò, per alleviare il suo animo oppresso in mezzo alle ferite, nella sofferenza dei flagelli consideri la dolcezza dei doni, e dica: "Se da Dio accettiamo il bene, perché non dovremmo accettare il male?"“. Ecco, questa capacità di accettare il male può venirci soltanto quando saremo ancora capaci di mettere tutto sotto la sua protezione: a peste, fame et bello, libera nos Domine! Commentando questa invocazione dalle litanie, Luciano Garofali afferma: “C’è stata un’epoca in cui il cristianesimo non era soltanto una religione ma il vero e proprio modus vivendi che regolava la vita del mondo. Tutto si conformava ad esso ogni più piccola azione, ogni modo di fare quotidiano: dal come relazionarsi con gli altri, cioè con il “prossimo”, al concepire gli spazi dove passare l’esistenza, alla stessa toponomastica delle città e dei luoghi di normale svolgimento di qualsiasi tipo di attività. E non ci si venga a raccontare che queste erano manifestazioni conseguenze dirette di un potere religioso che tendeva a soffocare qualsiasi anelito di libertà o di novità. O peggio erano lo stereotipo prefabbricato ed imposto con la forza, se non addirittura con il terrore, da un sodalizio formato dal potere temporale e da quello spirituale uniti e fusi per puntellarsi a vicenda e schiacciare la gente.Ogni cosa della vita aveva la sua attenzione anche in campo religioso ed ognuno, anche singolarmente, sentiva l’intima e forte esigenza di fare le cose con la protezione di Dio o di implorare la sua misericordia ed il suo aiuto sia in maniera preventiva, sia nel momento di chiedere conforto quando si era nella prova e nel dolore. Da un punto di vista sociale il lavoro era quello che aveva più bisogno dell’aiuto e delle benevolenza divina, per gli uomini  rappresentava la fonte di sussistenza, la possibilità di poter sopravvivere singolarmente ed anche garantire il giusto sostentamento alla propria famiglia ed ai propri cari. All’epoca l’agricoltura rappresentava l’attività di gran lunga più diffusa: essa forniva sia il lavoro sia direttamente anche i prodotti necessari alla sussistenza. Accanto a questa l’artigianato era in grado di creare tutta quella serie di prodotti collaterali che coprivano le necessità immediate più importanti: vestiario, attrezzi necessari al lavoro, prodotti utili per la casa” (maurizioblondet.it). Insomma, se abbiamo diritto di aver paura, abbiamo il dovere di cercare rimedio presso Colui che solo ce lo può dare.

1 commento:

  1. Parole "SANTE" ma difficilmente recepibili da una società che ha smarrito il senso religioso del vivere l'esistenza come dono ineffabile del Creatore

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