Qualche tempo fa, camminavo nella mia città come uno straniero. Ero in uno di quei momenti della vita in cui ti vengono presentati i primi, pesanti, conti da pagare. E quel conto veramente non riuscivo a pagarlo. La bellezza lasciva di Roma mi ripugnava, mi sentivo come un amante illuso e abbandonato, pur sapendo che la verità era chiara fin dall’inizio.
Camminavo nella zona che si affaccia sulla Stazione Termini, punto di arrivo e di partenza per milioni di persone che si abbeverano alla benevolente noncuranza con cui la città eterna ti accoglie. Mentre camminavo su quei sanpietrini consumati dal tempo, in un tempo in cui la solitudine era la mia sola compagna sperata, ho visto un viso familiare. Ho avuto due tentazioni: cambiare strada evitando l’incontro e chiamare questa persona, a me, per molte ragioni, cara. Ho optato per la seconda opzione.
Lui, al vedermi, era estremamente sorpreso e curioso per la mia presenza lì. Sapeva che io vivevo all’estero in quel tempo e quindi non si spiegava la mia presenza. L’ho messo quindi al corrente della situazione che stavo vivendo e abbiamo così cominciato a parlare. Quest’uomo ha un significato importante nella mia vita, è stato per tanti anni il mio Maestro. Ora è morto da qualche mese.
In effetti, come sapete, io sono principalmente un musicista, che poi ha anche tanti altri interessi. Ma la mia nazionalità è nella terra di Euterpe. Ora, quest’uomo non più giovane in quel tempo e anche lui provato da dolori difficili da sostenere, per com-patire il mio dolore, mi ha raccontato di come alcune cose riuscissero a trasfigurare il dolore in una dimensione più alta. Sapete, non è semplice. Si hanno rappresentazioni letterarie, musicali, pittoriche del dolore, che lo descrivono stupendamente, ma trasfigurarlo per una dimensione più alta, non è semplice. E lui mi ha fatto due nomi, subito da me accettati perché questi due personaggi già erano nel pantheon di coloro da me apertamente riconosciuti come modelli supremi. Uno è un musicista, il culmine del Rinascimento musicale italiano e uno dei vertici della storia della musica tutta: Giovanni Pierluigi da Palestrina, il principe della musica, i cui mottetti palpitano dei sentimenti più profondi e umani e li trascolorano in una luce palpabilmente invisibile; l’altro nome era anche a me estremamente familiare, fin dalla mia adolescenza, un nome che aveva nutrito ore e ore di letture e meditazioni; un grande peccatore ora santo, un faro per la teologia cattolica, un genio letterario: sant’Agostino.
Come fare a meno di occuparci di lui, pur se non volessimo? Sant’Agostino è uno dei giganti del pensiero umano, la cui scrittura ha realmente il potere di farti appoggiare sui concetti come fossero un tappeto per trasportarti in un mondo dove il dolore ha un senso che qui ci riesce difficile cogliere. Sant’Agostino inizia dove l’umanità finisce, egli si affaccia alla finestra dell’eternità e ce ne restituisce trepidanti bagliori.
Sant’Agostino è vissuto tra il 354 e il 430. Nato da una famiglia di religiosità varia: il padre non era un cristiano mentre la madre, Monica (anche lei futura santa) era una cristiana fervente. Il nostro Agostino diventa un dotto e sapiente nelle cose del mondo mentre nella vita privata non si faceva mancare le gioie del sesso senza pensieri e di una vita rilassata. Concepirà anche un figlio con una donna che lui prenderà come compagna e si concederà altre avventure nel regno dell’eros. A un certo punto della sua vita, quando aveva all’incirca 32 anni, una profonda crisi spirituale sconvolge la sua esistenza. Un anno più tardi verrà battezzato dal Vescovo di Milano, Ambrogio (altro grande santo). Da quel momento diviene uno degli apostoli più ferventi della cristianità, nonché uno dei più geniali, lasciandoci opere letterarie che ancora oggi sono imprescindibili per lo studio della spiritualità e della teologia. Una delle opere più straordinarie, un “best seller” senza tempo, è proprio il racconto della sua conversione: Le confessioni.
Il nostro santo è anche imprescindibile per lo studio del rapporto tra estetica e teologia. Egli si impossessa della lezione platonica, anche attraverso Plotino e la battezza nelle acque cristiane, facendone un modello per i teologi a venire. Io tenterò un percorso personale e spero interessante attraverso alcuni scritti del nostro santo, cercando di costruire un sentiero sospeso tra bellezza e teologia. Si badi bene: molti altri tenteranno percorsi agostiniani alla bellezza, li vedremo in seguito. Quello mio è un possibile percorso, non pretendo sia l’unico e non sarà possibile esaurirlo nello spazio di questo scritto. Ma sarà un cammino per alcuni versi esaltante, un cammino che ci permetterà di involarci per i cieli più densi del pensiero umano.
Parlando di Sant’Agostino, si comincia con una constatazione che prende le mosse dal mondo naturale. Se troviamo gioia nelle cose create (e lui ne aveva goduto anche smodatamente, come visto), se la natura ci emoziona, se le bellezze insite nel mondo umano ci avviluppano, come non pensare alla bellezza di chi ha creato tutto questo? “Cos’è che ti attrae nel mondo? Cosa vorresti lodare? Cosa amare? Da qualunque parti ti volgi con i sensi del corpo, ti si parano dinnazi il cielo e la terra; ma qualunque cosa ami sulla terra è terreno, qualunque cosa ami nello stesso cielo è corporeo. Eppure tu queste cose, sparse ovunque nel creato, le ami e le elogi; ma come non lodare l’autore di queste cose che lodi? Effettivamente fino ad ora sei vissuta troppo ingolfata [nelle cose materiali]; frustrata dalla molteplicità dei tuoi desideri, ne porti le ferite. Sei piagata, divisa in una quantità di amori, sempre inquieta, mai serena. Raccogliti in te stessa! Se fuori di te c’è qualcosa che ti piace, cerca chi ne sia l’autore. Sulla terra non c’è nulla che, ad esempio, valga più di questa o quella cosa: dell’oro, dell’argento, degli animali, degli alberi, di tutte le cose belle. Pensa a tutta la terra! E nel cielo cosa c’è che sia più meraviglioso del sole, della luna e delle stelle? Pensa all’immensità del cielo. Tutte queste creature nel loro insieme sono perfette in bontà perché Dio fece tutte le cose perfettamente buone. Ovunque risalta la bellezza dell’opera la quale a sua volta ti indirizza all’artefice” (Esposizione sul Salmo 145, 5). La bellezza del mondo creato ci rimanda ad un’altra bellezza. E questo possiamo anche sperimentarlo, come detto in precedenza, ascoltando un brano di musica che ci mette dentro una nostalgia per qualcosa che non riusciamo a fare nostro. Si potrebbe obbiettare, come da molti parti si fa, che tutto ciò che esiste non ha bisogno di un Creatore, è frutto del caso e della necessità, come dal titolo di un famoso testo sull’argomento. Talvolta queste affermazioni, sembrano attingere da comportamenti neo-religiosi, anche se di segno diverso da quello cristiano. Sarebbe uno stupido chi svalutasse l’importanza della scienza, ma lo sarebbe altrettanto chi facesse della stessa una nuova religione, con i suoi dogmi e le sue scomuniche. Chi ha creato il mondo? Quello che sant’Agostino ci suggerisce è che in questa creazione c’è un disegno mirabile (altri lo chiamano Intelligent Design, disegno intelligente). Anche scienziati atei non si nascondono questo. Certo questa constatazione non risolve semplicemente il problema e non tutti la condividono, ma noi ora seguiamo le tracce che ci lascia il nostro Agostino. Non sono certo da eliminare a cuor leggero.
In effetti, il nostro santo ci dice chiaramente che tutte queste cose create, che mostrano una loro bellezza che riflette una bellezza originaria, hanno anche un’altra caratteristica che probabilmente è parte della loro stessa proprietà di essere belle: esse sono ordinate. Cioè sono fatte e disposte con un criterio che indica un ordinatore: “Dio dispose secondo un ordine tutti gli esseri che aveva creati (...). La bellezza della terra è come una voce muta che si leva dalla terra” (Esposizione sul salmo 144, 13). Quindi, se fossimo in grado di leggere la bellezza del creato, potremmo accedere alla bellezza del Creatore. In questo modo la dimensione estetica diventa Teologia prima, Teologia che direttamente ci spalanca nella dimensione Altra. Ma siamo in grado di fare questo? Teoreticamente sì, ma qualcosa oscura la nostra visuale.
In uno dei suoi capolavori sommi, La città di Dio, il nostro autore dice:”Ma non ci diletta la bellezza di questo ordinamento, perché noi, inseriti in una parte secondo la condizione del nostro continuo morire, non possiamo percepire il tutto, nel quale si armonizzano con adeguata proporzione le singole particelle che quindi ci appaiono irrazionali” (Libro XII, 4). Quindi, la nostra debolezza ci impedisce di percepire un ordine superiore che pure esiste. È molto interessante questa riflessione del grande santo. Spesso noi ci chiediamo perché non riusciamo a percepire un’armonia superiore nelle devastanti dissonanze che il mondo ci presenta. Secondo lui, questa armonia non viene percepita in quanto noi siamo singole note che a malapena riescono a percepire la nota successiva o quella precedente, ma non l’armonia dell’insieme. Ma è possibile tentare di percepire l’armonia dell’insieme?
Commentando un versetto del salmo 92 (“Il Signore ha regnato; si è vestito di bellezza. Il Signore si è vestito di fortezza e si è cinto”) il nostro autore nota che il Signore si è rivestito di due cose: bellezza e fortezza: “In ordine a coloro per i quali era profumo di vita per la vita, si era vestito di bellezza mentre in rapporto agli altri, per i qual era profumo di morte per la morte, si era vestito di fortezza” (Esposizione sul salmo 92, 2). Così la bellezza di Dio si disvela per coloro che ne sanno cogliere il profumo, per gli altri si può solo assaporare la sua fortezza, che comunque viene dalla stessa fonte della bellezza.
Questa valutazione sulla bellezza, vista in una duplice valenza, la troviamo in modo più radicale in un passo delle Confessioni. Non possiamo dimenticare che questi due volti della bellezza, la bellezza che salva e la bellezza che perde, li abbiamo già prefigurati in precedenza e li ritroveremo ancora per tutto questo percorso.
Dicevamo del passaggio tratto dalle Confessioni. Qui, Sant’Agostino, ricorda un episodio giovanile di per se insignificante (un furto di pere) ma che lui usa per affrontare il tema della bellezza che inganna: “Ma io, sciagurato, cosa amo in te, o furto mio, o delitto notturno dei miei sedici anni? Non eri bello, se eri un furto; anzi, sei qualcosa, per cui possa rivolgerti la parola? Belli erano i frutti che rubammo, perché opera delle tue mani, o Bellezza massima fra tutte, creatore di tutto, Dio buono, Dio sommo bene e bene mio vero. Belli, dunque, erano quei frutti, ma non quelli bramò la mia anima miserabile, poiché ne avevo in abbondanza di migliori. Eppure colsi proprio quelli al solo scopo di commettere un furto. E infatti appena colti li gettai senza aver assaporato che la mia cattiveria, così inebriante a praticarla. Se pure un briciolo di quei frutti entrò nella mia bocca, a insaporirlo era il misfatto. E ora, Signore Dio mio, mi domando: cosa mi attrasse in quel furto?” (Libro II, capitolo 6). Quando la bellezza ci svia, cosa ci spinge al peccato? Anche una bellezza innocente come può essere quella di un frutto può spingere ad un peccato, seppure non gravissimo. Quindi il problema è in chi guarda. Ma come mai che questa bellezza che ci approssima a Dio più di ogni altra cosa ce ne allontana con altrettanta violenza? Ecco il mistero della bellezza, che certamente, almeno in parte, risiede in chi ne fruisce ma probabilmente risiede anche in chi ne è la fonte. Credo la mente riconosca il principio divino della bellezza, ma a quel punto i nostri istinti più bassi, la nostra natura corrotta e fragile ci spingono ad usare quel principio divino in modo distorto e ci forzano al peccato. Quindi la bellezza, da azione che ci protende verso un principio Altro si trasforma in tent-azione, forza che si oppone all’azione e che ci spinge nella direzione contraria. Ma quando commettiamo un peccato, anche in quel momento, stiamo provando una bellezza? O come chiamarla? In questo Agostino ci viene in parte in aiuto. In effetti egli la chiama bellezza, anche quella del peccato, ma la definisce “difettosa e irreale”. Questo traduce a mio avviso abbastanza bene il latino originale che parla di “defectiva specie et umbratica”. In effetti la parola “umbratica”, come un ombra, da l’idea meglio della parola italiana “irreale”. Irreale significa non reale, mentre un ombra non è reale, certo, ma anche è strettamente legata al reale, senza cui non potrebbe esistere. Un ombra non è una panzana, è qualcosa che esiste realmente ma irrealizzata. Non è falsa, semplicemente non è vera.
Come si vede, il pensiero di Agostino apre orizzonti sconfinati e non semplici che non possiamo semplicemente abbandonare nello spazio finora usato. La sua riflessione su teologia ed estetica merita una continuazione, così che la mente possa ruminare quanto finora affrontato per approfondire sempre più e meglio le insondabili profondità di questo mistero.
Ricordo la mia adolescenza, anche la prima fase della stessa. Quando si è bambini, non si ha una chiara concezione di cosa sia proibito e di cosa sia permesso. Ma nell’adolescenza, anche grazie all’educazione cattolica a cui si è sottoposti dalle nostre parti, l’idea di peccato comincia ad occupare la nostra coscienza. Ci cominciamo a chiedere se il risultato delle nostre azioni sia buono o se sia quantomeno ammissibile, sperando che ciò che a noi piace rientri in questa categoria. Quindi, in quella fase di cui sopra, si cominciavano ad affacciare nella mia coscienza le prime avvisaglie del senso morale, una categoria del pensiero che oggi mi sembra affascinante e anche un poco da approfondire.
Perché spesso si da scontato che sappiamo cosa sia morale e cosa no, ma se poi andiamo a indagare i punti di partenza ci accorgiamo che alcuni preconcetti che diamo per garantiti in realtà non hanno poi una base così ferma. Talvolta si fanno discorsi alati e pieni di logici pro e contro, ma non spesso ci si sofferma ad indagare i punti di partenza di un discorso. Ci sono cose che prese in se sembrano logiche perché hanno una coerenza interna ma se ne indaghiamo i presupposti non reggono. E’ un po’ come le favole: se si accetta la coerenza interna del racconto tutto regge, ma se si indaga il punto di partenza si deve ammettere che non è accettabile da un punto di vista della realtà, in effetti è una favola e svolge il suo compito per quello che è.
Come già detto precedentemente, la riflessione che andiamo facendo sul pensiero estetico e in particolare su quello di sant’Agostino ci porta ad indagare i presupposti di alcune nostre certezze. Questo viene fatto con lo stile proprio di questo grande Santo, uno stile fatto di domande e di scavi nel proprio animo. Come già detto da più persone, spesso il segreto del conoscere sta nel porre le giuste domande, non domande che richiamano risposte già confezionate, ma domande che aprono agli abissi di senso che ci circondando e ci sovrastano. Ecco la grandezza di sant’Agostino, egli ci conduce con il suo stile straordinario per queste strade impervie cercando con noi una via praticabile. Cerchiamo in queste poche righe di metterci ancora alla sua scuola e di camminare per qualche centimetro in più.
Innanzitutto continuiamo a soffermarci sul rapporto tra bellezza e peccato, come vedremo fare tra poco al nostro Sant’Agostino. Come possiamo parlare di un valore così bello e positivo come quello della bellezza ed associarci la parola “peccato”? In effetti, altre associazioni sono più semplici quando si parla di peccato: potere, avarizia, desiderio; queste parole hanno già intrinseca in se stesse una forte connotazione che le avvicina al peccato. Ma quando parliamo di bellezza stiamo parlando di qualcosa di positivo, che non ha in se un immediato richiamo alla debolezza dei nostri sensi e delle nostre risorse. Eppure proprio la bellezza è uno degli elementi che attrae di più il peccato. Qual è il dramma in tutto ciò? Che senza la bellezza non possiamo vivere. Pensate alla nostra vita immersa nella bruttezza, nello squallore, nella miseria estetica: è vita questa? Dunque, come uscirne fuori?
Nel secondo libro delle Confessioni, al capitolo sesto, ecco che il nostro Agostino ricorda un episodio, di per sé insignificante, capitato nella sua adolescenza: “Ma io, sciagurato, cosa amai in te, o furto mio, o delitto notturno dei miei sedici anni? Non eri bello, se eri un furto; anzi, sei qualcosa, per cui possa rivolgerti la parola? Belli erano i frutti che rubammo, perché opera delle tue mani, o Bellezza massima fra tutte, creatore di tutto, Dio buono, Dio sommo bene e bene mio vero. Belli, dunque, erano quei frutti, ma non quelli bramò la mia anima miserabile, perché ne avevo in abbondanza di migliori. Eppure colsi proprio quelli al solo scopo di commettere un furto. E infatti appena colti li gettai senza aver assaporato che la mia cattiveria, così inebriante a praticarla. Se pure un briciolo di quei frutti entrò nella mia bocca, a insaporirlo era il misfatto. E ora, Signore Dio mio, mi domando: cosa mi attrasse in quel furto?” Il ragionamento prende il via da un furto veramente insignificante come quello di qualche pera. Da questo l’autore cerca di ricavare un senso che però gli sfugge, in ultima analisi. Ma in effetti lo scavo psicologico che Agostino fa su se stesso ci torna utile, direi estremamente utile.
Di fronte a me, mentre scrivo, c’è un bel lago. Più in là si scorge una montagna. Sono indubbiamente belli, di una bellezza talvolta anche sconvolgente. Ma non ci viene da dire che questa bellezza ci perde, non è una bellezza che tenta. E’ una bellezza vissuta solo in senso positivo, che non ci fa rischiare di cadere. Torniamo alla dinamica della bellezza fra desiderio e contemplazione. Quando vedo una bella ragazza (o quando una ragazza vede un bel ragazzo), pur se quella bellezza probabilmente deriva dallo stesso principio originario e originante, in questo caso la bellezza ha un connotato più pericoloso, quello della tentazione. Che cosa è che si fa pericoloso nel secondo caso, cosa rende le pere di cui fa menzione sant’ Agostino, una tentazione?
Conoscete Cupido? E’ quell’angioletto che schiocca una freccia ed ecco che le persone si innamorano. Tutto sembra così dolce e tenero. Ma è in effetti anche pericoloso: amore, passione, desiderio, talvolta si mischiano e confondono. In effetti il nome del nostro Cupido sembra derivare dal latino “cupere” che significa “bramare ardentemente” e va a formare un’altra parola che ci torna proprio utile: concupiscenza. Questo significa lo smodato desiderio di qualcosa non diretto ad un fine buono. Ora, il peccato sta nel voler possedere la bellezza? Sarebbe difficile fare questa affermazione senza circostanziarla. Certamente tutti vogliamo più bellezza nella nostra vita. Probabilmente la questione si articola proprio sulla parola “possedere”, bramare. La voglia di possesso, il voler sfruttare la bellezza piuttosto che farla fruttare, ecco, qui credo sia il punto dirimente.
La parola “bramare” ci offre alcuni appigli fantastici per entrare meglio in questa delicata questione cercando di capirla meglio e più appropriatamente. Secondo un’etimologia derivante dall’antico tedesco la parola significherebbe “ruggire”. Questo significato in effetti ci da una chiara idea di cosa la parola vuole comunicarci: il desiderio è una forza quasi animale che riusciamo a stento a controllare. Altre etimologie della parola suggeriscono anche la parola “smania”, un comportamento che va di là delle capacità razionali, o perlomeno le mette a dura prova.
Quindi nella bellezza si mette in moto un desiderio che ha due propulsori, uno buono e uno non buono. Quello buono è il desiderio naturale di bellezza che agisce nel cuore di ogni essere umano. Come detto, nessuno gioisce e gode della bruttezza, direi essere questa quasi una patologia. L’uomo vuole naturalmente il bello e gioisce di questo. Il propulsore non buono è quando la bellezza diviene voglia di possedere, diviene una tentazione alla propria libertà dalle cose materiali, diviene voglia di smanioso dominio. Ma il problema qui non era la bellezza, ma il modo in cui la percezione di chi guarda si attiva. Certo, non cerchiamo di fare i pii: sappiamo come i sensi indeboliscono la nostra capacità di controllo e come quindi dovremmo essere sempre vigili contro il pericolo delle tentazioni, in cui però sappiamo di cadere frequentemente.
Ecco come si spiega quel passaggio del Vangelo in cui Gesù dice che chi guarda una donna per desiderarla commette adulterio nel proprio cuore. La percezione ci svia da quello che dovrebbe essere il fine e lo scopo primario del godere della bellezza, che è il gaudio del cuore e dell’animo e il riconoscimento di una bellezza superiore. Noi riconduciamo la bellezza solo alla nostra dimensione e quindi la limitiamo. Dovremmo elevarci come aquile sulle ali della bellezza. Purtroppo però, siamo peccatori e non incidentalmente, e sappiamo di essere continuamente sottoposti alla spina nella carne che ci tormenta. Non ci disperiamo: questo è un cammino che ci vede tutti pellegrini e le tentazioni della bellezza sono subite da tanti nostri fratelli in umanità, probabilmente tutti. Anche i santi, pur vivendo una vita cristallina, spesso confessavano la loro debolezza umana e come anche loro combattessero giorno dopo giorno queste tentazioni. Il nostro sant’Agostino, come si sa, aveva vissuto una vita immersa nei piaceri della carne e posso credere che, anche dopo la sua straordinaria conversione, abbia dovuto lottare strenuamente contro le proprie passioni.
Ma quale è la bellezza che possiamo accettare e quella di cui dobbiamo avere paura. Detto ancora meglio: come ci poniamo nei confronti di ogni bellezza per fare in modo che essa non ci spaventi ma potendone godere senza esserne goduti? Questo mi sembra il nodo cruciale di tutto quello che si va dicendo fino a qui. Nel libro decimo delle Confessioni, al capitolo sesto, il nostro Santo ci apre una porta piena di luce che ci porta a vedere tutto quello che si è detto sopra in una prospettiva nuova: “Ma che amo, quando amo te? Non una bellezza corporea, né una grazia temporale; non lo splendore della luce, così chiaro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio: la luce, la voce, l’odore, il cibo, l’amplesso dell’uomo interiore che è in me, ove splende alla mia anima una luce non avvolta dallo spazio, ove risuona una voce non travolta dal tempo, ove olezza un profumo non disperso dal vento, ov’è colto un sapore non attenuato dalla voracità, ove si annoda una stretta non interrotta dalla sazietà. Ciò amo, quando amo il mio Dio”. Ora, in questo straordinario passaggio, abbiamo una risposta efficace ai dubbi sopra esposti. Una risposta che dobbiamo considerare per qualche istante. Quello a cui ci richiama il grande Santo è un educazione al guardare. Dobbiamo riscoprire in noi la capacità di avere uno sguardo puro. Mi sembra Confucio abbia detto che gli occhi sono la custodia della nostra pace interiore. È ovviamente vero. La capacità di dominare i nostri pensieri generati da quello che ci tenta nella bellezza esteriore (che, come detto, non ha colpa del modo in cui la guardiamo) è centrale nel controllo delle passioni.
Io amo le cose ma non perché le voglio possedere ma perché esse riflettono un significato che va oltre me stesso e la mia brama di possesso. Quindi non amo le cose per loro stesse, ma le amo quando esse rintoccano nel mio essere interiore una bellezza che non mi chiude in me stesso ma che mi apre ad un Altro, una bellezza che non è avere ma essere. La via che porta ad acquistare questo sguardo puro è il ritorno all’uomo interiore per raggiungere l’umanità’ esteriore. Essa è quell’umanità’ che non è racchiusa nelle quattro mura del nostro corpo, ma si espande per le vie del tempo e dello spazio e ci attende per dirci di un senso che non è sensuale. Ecco la bellezza che celebra sant’Agostino, la bellezza che non si fa carne decadente ma che nella carne decadente si eternizza.
Nessun commento:
Posta un commento