martedì 29 dicembre 2020

La bellezza nell’età dell’illuminismo: la nascita dell’estetica

 


Nelle precedenti “parti” di questo testo, si è avuto il modo di incontrare vari pensatori e si è valutato la loro influenza nel cammino della bellezza e nella sua relazione con la teologia in modo particolare. In tutti questi pensatori ci si concentrava sul soggetto dell’osservazione, cercando di razionalizzare in che cosa questo soggetto appariva bello. Gli artisti cercavano questa via segreta alla bellezza per fare in modo che le loro opere potessero risplendere di questa bellezza, che essa potesse essere vista e ammirata dal pubblico, dai fruitori della bellezza, insomma da noi. Ma, nel XVIII secolo, tutto questo è destinato a cambiare, in modo drammatico. Innanzitutto bisogna introdurre il nostro primo protagonista, Alexander Gottlieb Baumgarten (1714-1762). 

Non è un personaggio molto conosciuto al di fuori dei circoli filosofici ma dobbiamo dedicargli un poco di attenzione per un paio di motivi. Il primo è che alcune sue tesi saranno oggetto di riflessione da parte di un filosofo che avrà un’influenza enorme sulla storia del pensiero successivo, fino ai nostri giorni; l’altra è che egli sarà il primo nella storia ad usare il termine “estetica” per denotare la conoscenza sensibile (“Aesthetica…est scientia cognitionis sensitiuae” come appare nel suo volume dedicato a questo tema), che si serve dei sensi e per formulare una teoria dell’arte. Essa sta vicino alla logica, che è conoscenza intellettuale. Nel suo volume del 1750, che prende appunto il nome di “Aesthetica”, egli espone la sua visione filosofica ed intellettuale. Ma il concetto di “estetica” come scienza filosofica a se stante si trova già in questo autore in un lavoro del 1735, “Meditationes philosophicae de nonnullis ad poema pertinentibus” (Meditazioni filosofiche su alcune caratteristiche del Poema,     Hammermeister, Kai (2002). The German Aesthetic Tradition. Cambridge, United Kingdom: Cambridge University Press. Pag. 3). Quindi, la storia accredita questo autore come colui che inserisce nel dibattito filosofico questo termine, dibattito filosofico in cui presto si inserirà un protagonista assoluto.

Sono anni interessanti, non c’è che dire. Le persone nate nel XVIII secolo respirano la nascita di un nuovo sentire che impregnerà nel profondo le anime e le menti, il sentire scientifico, già reso più indipendente da quello ecclesiastico in età barocca. Chi nasce in questo tempo sta nella scia di Cartesio e del suo dualismo che da lui sarà chiamato cartesiano, che oppone la mente e il cervello come due entità non completamente coincidenti (ancora ad oggi la sua riflessione è oggetto di profonde disquisizioni accademiche). Chi nasce in questo tempo sta nella scia di Isaac Newton, fisico e matematico che attraverso la sua legge di gravitazione universale e le sue leggi sul moto avrà un’influenza determinate sulla scienza a venire. Chi nasce in questo tempo potrà forse riflettere ancora più di quello che viene fatto da noi sulla figura di Galileo Galilei e sui limiti di scienza e fede e su come possano (o debbano?) vivere insieme. Insomma, una nuova pagina della storia dell’umanità è stata aperta e questa non potrà anche non avere influenza su come il nostro occhio vede, su come la nostra percezione è guidata al guardare.

Un uomo avrà certamente un’influenza determinante sul pensiero a venire e non solo nel campo filosofico: Immanuel Kant. Questo filosofo, forse anche un pochino noiosetto a giudicare dalle sue abitudini così regolari che la gente pensava si potesse regolare l’orologio nel momento del suo passaggio per la quotidiana passeggiata, avrà un influsso determinante su tutta la filosofia a venire, fino ai nostri giorni. Era nato nel 1724, in una famiglia che coltivava la fede pietista, una derivazione del protestantesimo di impronta fortemente soggettivistica e antidogmatica. Nel 1770, dopo i suoi studi, diverrà professore di logica e metafisica. Quest’ultima avrà da patire parecchio proprio per gli studi del nostro simpatico professore. Dal 1781 comincerà a pubblicare i suoi influentissimi trattati filosofici, a cominciare dalla Critica della ragion pura. Proprio in quest’opera, nella nota 2 a pagina 54 della versione italiana, troviamo questa affermazione: I tedeschi sono i soli, che si servano al presente della parola estetica per indicare ciò che gli altri chiamano critica del gusto. La ragione sta nella fallita speranza dell’eccellente analista Baumgarten, il quale credette di ridurre a principi razionali il giudizio critico del bello, e di elevarne le regole a scienza. Ma codesto sforzo è vano. Infatti le dette regole e i criteri del gusto sono per le loro principali fonti, empirici, e però non possono mai servire per determinare leggi a priori, sulle quali dovrebbe appoggiarsi il nostro giudizio del bello: piuttosto questo forma la pietra di paragone della validità di quelli. Quindi, secondo il nostro Kant, non possiamo assolutizzare il bello, esso dipende dall’osservatore. Secondo lo studioso Andrew Bowie, il nostro Kant rivedrà più tardi questo giudizio sul povero Baumgarten: Al tempo della Critica del Giudizio, comunque, Kant avrà apertamente considerato più in profondità quanto aveva motivato la concezione di Baumgarten (nelle sue inedite “Riflessioni” aveva già considerato più seriamente l’estetica intesa nel nuovo senso)(Bowie, Andrew (2003). Aesthetics and Subjectivity. From Kant to Niezsche. 2nd Ed. Manchester, England: Manchester University Press. Pag. 19 (Mia traduzione)). Malgrado alcune riconsiderazioni successive, non possiamo passare sotto silenzio il ruolo devastante che il nostro Kant avrà sulla tradizione precedente. In effetti è interessante considerare come la sua opera si svolgerà proprio nello stesso periodo che vedrà la nascita del termine “estetica”. Che, grazie a lui, non sarà più la stessa. In effetti, ciò che interessa al nostro filosofo non è tanto l’oggetto estetico, quanto il soggetto estetizzante. Insomma, san Tommaso d’Aquino ci aveva detto che bello è ciò che piace allo sguardo, ma intendendo con questo che la qualità dell’oggetto estetico attirava il piacere nello sguardo dell’osservante. Qui ci troviamo su un altro piano, la sensazione risiede nell’esperienza di chi osserva: Kant è forte nell’affermare, quindi, che noi possiamo solo conoscere il mondo come appare a noi attraverso le costitutive categorie a priori della soggettività che sintetizzano intuizioni in forme di conoscenza. Il mondo come oggetto di verità è quindi costituito attivamente dalle strutture di coscienza che noi abbiamo di lui, il che significa che noi non possiamo conoscere come il mondo è ‘in se stesso’” (Bowie, Andrew (2003). Op. Cit., 17 (Mia traduzione)). La studiosa Fiona Hughes dell’Universita’ dell’Essex (Gran Bretagna), suggerisce che il giudizio estetico in Kant è guidato da ciò che lei definisce “purposiveness” nella natura, potremmo dire “determinazione” della natura: Il pensiero centrale nella mia interpretazione di determinazione è che essa è un concetto relazionale.  ‘Determinazione della natura’ non significa la proiezione della mente nella natura, come molti hanno sospettato. Denota invece la nostra ricettività riflettente al mondo nel quale noi troviamo noi stessi. La vera possibilità di una relazione tra il soggetto e il mondo è espressa da ‘determinazione’(Hughes, Fiona (2006). On Aesthetic Judgement and our Relation to Nature: Kant’s Concept of Purposiveness. In Inquiry, Vol. 49. No. 6, 548. (Mia traduzione)). Come vediamo, una concezione molto articolata del pensiero del nostro, che andrebbe di certo approfondita. Saranno anche molto interessanti le riflessioni di Kant sul concetto di sublime che, secondo la studiosa Gesa Elsbeth Thiessen, Kant intende come una sensazione che viene creata nella nostra mente dalla potenza della natura. Comprendendo questa potenza della natura come sublimità, continua la studiosa, uno potrebbe anche essere in questo modo innalzato alla contemplazione della sublimità di Dio, se e’ in grado di conformarsi alla sua volontà (Thiessen, Gesa Elsbeth (2004). Theological Aesthetics. A Reader. Grand Rapids (MI), USA: William B. EErdmans Publishing Company. Pag. 186). Come si capisce, in Kant c’è uno scavo che porterà anche a contatti con quanto le neuroscienze ci vanno rivelando sulla nostra capacità di conoscere. Si potrebbe dire che oggi, per sapere di più su di noi, la palla e’ passata dalla filosofia alle scienze che studiano i meccanismi cerebrali. Certo ci dovremo tornare in uno dei prossimi paragrafi.

Mentre il nostro Kant si dava molto da fare con la sua attività di insegnante, nasceva un altro pensatore che avrà un influenza determinante sulla storia a venire. In un certo senso anche questo pensatore va considerato con lo stesso peso con cui consideriamo il nostro Kant, in quanto la sua filosofia, ostica e di non facile approccio, fornirà strumenti per alcune correnti di pensiero che letteralmente scriveranno la storia del secolo ventesimo, spesso con lettere di sangue. Un pensatore che darà anche rilevanti contributi nel campo dell’estetica e della Teologia: Georg Wilhelm Friederich Hegel (1770-1831). Anche in questo caso, come un poco in Kant, si tratta di pensiero difficile da districare, così offrirò solo qualche intuizione sul tema che si va trattando. 

Il nostro Hegel, nato lo stesso anno di Beethoven, fu studente di Teologia e poi professore universitario. Negli ultimi anni della sua vita sarà riconosciuto come una influenza determinante per la filosofia tedesca. Lo sara’ molto di più per il pensiero di tutta l’umanità, come già detto sopra. C’è da dire che la sua influenza sarà importante anche nel campo dell’estetica: Georg Wilhelm Friederich Hegel continua ad essere uno dei capisaldi cruciali nella storia dell’arte e degli studi sulla visione(Murray, Chris ed. (2003). Key writers on Art: From Antiquity to the Nineteenth Century. London, UK: Routledge. Pag. 162. (Mia traduzione)). Nel suo pensiero ha una grande importanza la storia in cui avvengono cambiamenti grazie ad un processo dialettico fatto di tesi, antitesi e sintesi, che a sua volta diventa tesi per andare così quasi all’infinito. L’arte, secondo Hegel, rappresenta lo spirito di una particolare cultura e di un dato artista, ma anche lo spirito dell’umanità in generale. Secondo la concezione storica di Hegel, il cammino della storia è proteso verso un climax che arriverà; in questo senso l’arte è continuo progresso, intendendo con questo che si da una grande importanza a ciò che e’ contemporaneo rispetto a ciò che appartiene al passato. 

I tre momenti principali della storia dell’arte per il nostro vengono definiti come: simbolico, classico e romantico (Letture sull’Estetica). Questi tre momenti sono definiti da come la forma e l’idea vengono a trovarsi in relazione reciproca. Nel momento simbolico, una idea potente cerca di trovare espressione in una forma che però non riesce a conformarsi pienamente all’idea, risultando in qualche modo distorta. Questo, secondo Hegel, va cercato principalmente nell’arte egiziana e indiana, ma anche in altre arti in cui ci sono caratteristiche somatiche o sessuali molto esagerate. La seconda fase, quella classica, può essere rappresentata dalla scultura Greca. Qui idea e forma si trovano in equilibrio ammirevole ma la profondità dell’idea, sempre secondo il nostro, non e’ abbastanza sviluppata. La terza fase, quella romantica, da importanza all’interiorità. Le immagini non possono veramente fare onore all’idea che trova la sua espressione migliore nell’interiorità. Secondo Hegel questo è tipico dell’arte cristiana specialmente nel trattamento di alcuni temi come martiri, sofferenze varie e crocifissioni.

Quello che penso vada meditato con attenzione è il concetto che si trova in Hegel, secondo cui la verità evolve storicamente: Nel sistema di Hegel, la verità si sviluppa storicamente, così che la storia dell’arte, religione e filosofia, sono narrazioni significative che ora, alla fine di tutto, mostrano un comportamento che prende significato(Murray, Chris ed.(2003). Op. Cit., Pag. 162). Quindi, l’arte contemporanea spiega tutta l’arte precedente che ha senso solo alla luce di quello che facciamo oggi, se si porta questo discorso alle sue logiche conseguenze. Mi sembra di vedere che questa sia quasi una concezione evoluzionistica dell’arte, per cui il successivo è meglio del precedente, per cui quello che arriva oggi è il prodotto finale di secoli di evoluzione. Non vorrei dare troppi demeriti al nostro Hegel, ma ricordiamo che questo intreccio tra Hegel ed  evoluzione dialettica nella storia, darà vita anche ad ideologie che tanto faranno sanguinare il secolo ventesimo. Come abbiamo ricordato, questo processo di cambiamento avviene attraverso il processo di tesi, antitesi e sintesi. Questa “ascesa dialettica’ come viene anche chiamata può andare avanti all’infinito. Secondo il nostro Hegel, si è giunto alla fine dell’arte come era anticamente intesa, oramai sostituita da Scienza e Filosofia. Quando lo Spirito avrà finalmente raggiunto la sua auto realizzazione non ci sarà più necessità di immagini. 

L’influenza di queste idee sulla moderna estetica è enorme. Basti citare lo studioso Artur Danto che enuncia una tesi molto simile a quella di Hegel e che avrà larga influenza sul dibattito artistico contemporaneo. Secondo questo filosofo è vero che in un certo senso l’arte è finita, nel modo in cui veniva tradizionalmente concepita. Non si può più fare arte come nel passato. Se questo, aggiungo io, ha un elemento di verità, mi permetto di osservare che ha anche un elemento di forte ambiguità. Cosa significa in definitiva che l’arte non si può più fare come nel passato? Dobbiamo sempre ricominciare per acquisire la patente di artisti? E cosa è una artista? Ha un significato questa parola? Queste idee faranno in modo che chiunque possa essere accusato di non essere “moderno” e quindi escluso da certi circoli che contano. Se solo il nuovo è importante, chi si rifugia in una sapienza tradizionale viene escluso. Ma cosa è il nuovo? Chi stabilisce cosa è nuovo e cosa non lo è? A chi spetta il giudizio finale su chi è moderno e chi no? Rispetto a cosa, a quali criteri? Come mi piacerebbe che Hegel potesse rispondere a queste impertinenze.

















































La bellezza nell’epoca barocca

 


L’uomo interroga se stesso. 

Questo fenomeno, che accompagna tutti i periodi della nostra storia, si fa particolarmente presente in certi momenti piuttosto che in altri. L’arte, come già visto in precedenza, è mezzo privilegiato di questo interrogarsi in quanto con essa e in essa noi siamo capaci di domande che con termine oggi usato potremmo definire “laterali”, cioè che potrebbero sfuggire ai nostri comuni schemi di pensiero e alle presupposizioni che tanto guidano certi nostri ragionamenti. Come penso di aver detto in precedenza, possiamo trovare questo modo di pensare anche in un teologo di enorme influenza nel secolo XX, Karl Rahner, teologo che avrà un’influenza anche nefasta sul pensiero teologico moderno. In un suo importante articolo su arte e teologia (Rahner, Karl (1982). Theology and the Arts in: Thiessen, Gelsa Elsbeth (2004). Theological Aesthetics. A Reader. Gran Rapids, Michingan, USA: Erdmanns, pagg. 218-222) egli ci da la chiara misura di come l’arte sia un chiaro complemento della teologia e come tale debba essere attentamente considerata negli studi del settore. Ma questo ancora stenta ad entrare nella mentalità di tanti teologi, preoccupati di tener separati gli ambiti dei due settori, come se l’arte potesse contaminare la teologia, contaminare “la scienza”. Non sanno quello che si perdono. L’arte offre chiavi nuove per la comprensione delle realtà che ci superano e dovrebbe essere attentamente considerata. 

Come andiamo vedendo nell’esplorazione di figure e periodi importanti della nostra civiltà, arte e teologia possono contribuire fortemente alla nostra comprensione teologica, anche in periodi in cui la teologia è probabilmente meno vivace che in altri. Questo mi sembra il caso nel periodo storico che chiamiamo Barocco. E da uno dei suoi protagonisti partiamo per questa riflessione.

Ancora ricordo con chiarezza quel giorno di tanti anni fa. Camminavo per la mia bella Roma, non ricordo se andavo da qualche parte precisa o semplicemente mi piaceva andarmene a spasso senza una meta. Insomma, mi trovai in una zona chiamata Esquilino, zona fortemente multietnica e centro trafficato anche per la presenza della stazione ferroviaria centrale di Roma, la stazione Termini. Io ero abbastanza vicino alla stazione Termini, a dieci minuti da essa. Ero di fronte ad una delle quattro Basiliche maggiori di Roma, una bella chiesa visitata da tanti turisti e pellegrini da tutto il mondo: Santa Maria Maggiore. Santa Maria Maggiore è proprio bella, con la sua eleganza classica, ordinata, rassicurante. Entrai nella chiesa e cominciai a vagare per i suoi generosi spazi. A un certo punto mi trovai alla destra dell’altare centrale, bellissimo monumento al dramma che su quell’altare si consuma da secoli e secoli. Una scritta latina su uno dei gradini laterali dell’altare attrasse la mia attenzione, una scritta che mi fu agevole volgere immediatamente in italiano: “Gian Lorenzo Bernini qui aspetta la risurrezione”. Quella scritta mi colpì molto, non solo perché mi trovavo di fronte ad uno degli artisti più geniali della nostra civiltà, ma anche per come era formulata la frase in se stessa. Ci torno presto. 

Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) è uno degli artisti che più hanno segnato l’arte cristiana ed è una delle perle del periodo barocco. In effetti questa definizione, la perla,  sembra un pochino ironica, in quanto lo stesso termine “barocco” sembra significare una perla malriuscita, quindi è un termine dispregiativo, proveniente pare dal portoghese o dallo spagnolo (Adorno, Pietro (1987). L’arte italiana. Le sue radici Greco-romane e il suo sviluppo nella cultura europea. Vol. II: Il rinascimento e il barocco. Messina-Firenze, Italia: Casa Editrice G. D’Anna). Perché un termine dispregiativo per indicare questo periodo? Perché secondo alcuni nel barocco si era persa la “classicità” dei secoli precedenti. In effetti ancora oggi noi usiamo questo termine anche in senso negativo quando diciamo che qualcuno ha una “retorica un po’ barocca”, nel senso di artificiale. E questa, nei secoli immediatamente successivi al barocco, sarà la visione predominante di questa età. 

Nel periodo della razionalità illuministica che, specialmente grazie ad Immanuel Kant, in un certo senso cambierà il modo in cui noi vediamo il mondo, il barocco era visto come l’era dell’eccesso, dell’artificio, dell’innaturale. Non dimentichiamo anche che questo periodo è una derivazione del tardo manierismo, anche in questo caso una definizione in negativo dell’arte data a coloro che si allontanavano dalla classica bellezza dell’arte rinascimentale per ricercare emozioni artificiose. 

Forse, come Pietro Adorno (1987) afferma, il barocco è la continuazione logica del manierismo, che ne è la premessa. Se questo esprime la crisi della società rinascimentale, l’angoscia del dubbio, l’urto tra la Riforma protestante e la Controriforma cattolica, il barocco è l’arte del trionfo controriformista e dell’assolutismo sovrano, sia quello papale a Roma, sia quello monarchico in Francia o in Spagna; ma è  anche l’arte dell’introspezione psicologica dell’uomo, l’espressione del suo dramma” (pag. 690). Questa lettura dello storico dell’arte può trovarci sostanzialmente d’accordo. Il barocco è lo stile della reazione, una reazione che non riporta allo stadio precedente, ma che veramente “reagisce”, cioè si pone in conflitto con le sollecitazione che la storia poneva in quel periodo. Conflitto, non sempre teso a negare, ma talvolta anche spinto ad integrare quelle tensioni e pulsioni che il tempo faceva fatica a trattenere. Quando noi guardiamo qualcosa, in un certo senso, siamo anche cambiati dalla cosa stessa che guardiamo: L’osservatore guarda l’oggetto,/ ma l’oggetto cambia l’osservatore,/ e quindi l’osservatore non guarda all’oggetto(Elkins, James (1996). The object stares back. On the nature of seeing. New York USA: A Harvest Book, Harcourt Inc.pag. 43). Che significa? L’osservazione cambia il punto di vista dell’osservatore, quindi anche ciò che avversiamo, che fronteggiamo, che combattiamo, ci cambia. Questo credo sia osservabile nello scontro tra tendenze religiose nelle varie epoche della nostra storia.

Insomma, la Roma controriformista di Bernini, come reagisce alle istanze della riforma luterana? Riaffermando il trionfo del cattolicesimo, rafforzando la devozione eucaristica, il culto mariano con le varie processioni. Bernini è uno dei protagonisti assoluti di questa stagione per molti versi straordinaria. Ma di lui vorrei mettere in luce qualcosa che mi fu sollecitato proprio dall’iscrizione che avevo trovato nel luogo del suo riposo eterno: quel verbo, aspettare. In effetti l’arte del grande Bernini è molto segnata da questa imminenza, come se lui si preoccupasse di fermare un momento ed eternarlo nella immagine artistica. 

Mi ha sempre colpito, come a tanti milioni di visitatori che si sono succeduti nel corso dei secoli, la statua dell’estasi di Santa Teresa che si trova nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria. Questa chiesa si trova proprio all’altro lato della strada rispetto all’altrettanto bella chiesa di santa Susanna, dove io ho lavorato per circa dieci anni come Director of Music. Avevo quindi occasioni frequenti di visitare la statua del Bernini e devo dire che l’osservarla m’incatenava sempre a quello sguardo, come se lo scultore avesse voluto fermare quel movimento che si scatenava dall’anima infuocata della Santa. Insomma, Bernini vuole catturare il fremito, vuole “plasticizzare” il movimento. 

Naturalmente non sono mancate le interpretazioni in chiave psicoanalitica ed erotica, ma questo credo sia un rendere parziale il senso più totale di questa scultura: è il tutto nell’istante, l’immobile nel fremito, l’eterno nel momento. Come si diceva non sono mancate le critiche a questo capolavoro: Mentre tutti riconoscono l’eccezionale abilità tecnica nella composizione e nel trattamento del marmo, molti le rivolgono almeno due critiche fondamentali: la spettacolarità teatrale al limite dell’esteriorità e una specie di ambiguità nell’abbandono della Santa in un’estasi d’amore più terrena che divina (Adorno 1987, 734). Critiche che non erano incomprensibili, visto il modo in cui l’opera si presentava. Ma il livello scelto dall’artista era più in alto.

Voi penserete che questa scultura rappresenti un momento particolare, forse irripetibile della carriera del nostro. Se fosse così, dovrei chiedervi di accompagnarmi in una chiesa non troppo grande del quartiere di Trastevere, non troppo lontano dalla chiesa di santa Maria della Vittoria. In quella chiesa, San Francesco a Ripa, al nostro Bernini oramai anziano, fu affidata un’altra statua, questa volta dedicata all’estasi della Beata Ludovica Albertoni, una donna di origine romana conosciuta anche nello stesso Trastevere per la sua dedizione alla carità verso il prossimo. Andando a guardare quest’altra estasi, che probabilmente ritrae la donna al momento della morte, vediamo come il tema rimane lo stesso. Lo scultore cerca di fermare un istante, non è l’estasi immobile di tanta arte precedente, ma è un estasi che il momento artistico cerca di bloccare. L’arte cerca l’essenza della vita e in questo caso della vita suprema, l’esperienza mistica. Vorrei azzardarmi a dire che in quel periodo (e forse in altri) gli artisti erano più avanti dei teologi.

Se ora facciamo un’altra camminata nella bella Roma, potremmo per esempio avviarci verso il centro di questa città e scoprire un’altra chiesa degna della nostra massima attenzione. Questa chiesa prende il nome di san Luigi dei Francesi e all’interno, tra altre meraviglie artistiche, troviamo una Cappella decorata con alcuni dipinti che sono al cuore della civiltà artistica barocca. Questa cappella era proprietà della famiglia Contarelli che, negli ultimi anni del secolo XVI, commissiona un ciclo di dipinti ispirati alla figura dell’apostolo Matteo. L’autore del ciclo è un pittore burrascoso, attaccabrighe, un carattere focoso pur se profondamente religioso: Michelangelo Merisi, per tutti il Caravaggio (1571-1610. Esiste una abbondantissima letteratura su questo pittore, come per esempio: Langdon, Helen (2000). Caravaggio, A Life. Westview Press; Papa, Rodolfo (2002). Caravaggio. Firenze, Italia: Giunti. Volpi, Caterina (2002). Caravaggio nel IV Centenario della Cappella Contarelli: Convegno Internazionale di Studi, Roma 24-26 Maggio 2001. CAM). Il ciclo di dipinti che egli dedica all’apostolo Matteo è una esposizione non solo artistica, ma anche teologica della vita del santo, forse più questa che quello (nel senso che il significato è ben più in alto del significante). Le tre storie si riferiscono a tre momenti della vita del santo (non posso fare a meno di ricordare un ciclo di conferenze su Caravaggio e altri grandi pittori del Professor Papa che in passato ho avuto modo di seguire e che ha ispirato/suggerito alcune delle breve riflessioni che vado svolgendo):  l’incontro con Gesù (la vocazione di san Matteo), la sua attività di evangelista (san Matteo e l’angelo) e il suo transito (il martirio di san Matteo). In questi tre dipinti l’autore ci offre una lettura di questi momenti che unisce l’altezza artistica alla speculazione teologica. Non è questo il posto per fare un commento particolareggiato di queste opere e non sarei io la persona probabilmente più adatta, ma vorrei solo indicare alcuni spunti di riflessione. Se si guarda la vocazione di san Matteo, come non farsi colpire da quella luce che segue il gesto “creatore” della mano di Gesù verso la figura che Caravaggio ha voluto in abiti contemporanei a lui, dell’apostolo Matteo. La luce della grazia divina tocca alcuni ma non altri in quel tavolo di una bettola qualunque. Da notare la figura dell’apostolo Pietro, simbolo della Chiesa, frapposto fra il Cristo e l’apostolo, simbolo della mediazione. 

In Matteo e l’angelo, c’e’ tutto il discorso dell’ispirazione delle Sacre Scritture, in che modo Dio irrompe nella libertà dell’uomo, come la rispetta e come la guida. Di questo dipinto esisteva anche una versione precedente che fu però rifiutata, apparentemente per la rozzezza delle fattezze dell’apostolo. In questo dipinto precedente si vedeva (perché ora è andato perduto durante la seconda guerra mondiale) l’angelo che letteralmente guidava la mano dell’apostolo nella redazione del suo Vangelo, quasi come se la libertà dell’uomo fosse messa in dubbio da questo gesto. Come interviene Dio nella vita dell’uomo? A queste domande Caravaggio cerca di dirigere la nostra attenzione. 

Nel Martirio ci colpisce quella figura di uomo al centro, il carnefice che è però, in una posizione più eretta, tremendamente simile al Michelangiolesco uomo della Creazione nel ciclo della Cappella Sistina. L’uomo da Dio creato diventa carnefice. Ecco il dramma della nostra umanità simboleggiato in questa tela.

E poi la luce: quel contrasto fra la luce e le tenebre che così colpisce nei dipinti di Caravaggio, come se l’uomo fosse sempre in lotta per emergere dall’oscurità che tanto racchiude di questo mondo e si protendesse con sempre nuovo slancio e sempre rinnovata fatica verso quello Splendor Paternae Gloriae che Sant’Ambrogio cantava in uno dei suoi inni più belli. La luce è uno degli elementi che più colpisce nei dipinti del nostro, quella stessa luce e tenebre di cui fu impastata la sua tempestosa vita, finita in una spiaggia come a voler afferrare il mare per l’ultima volta, simbolo di quell’infinito di cui aveva cercato i colori più intimi e segreti. 













































domenica 27 dicembre 2020

La bellezza nel Rinascimento

 


La lezione di Dante Alighieri avrà le sue conseguenze sul pensiero estetico dei secoli d’oro del Rinascimento. Questa rinascita della carnalità nel cuore dello spirituale sarà un tema che pervaderà molti secoli della spiritualità cristiana, che sarà anche percossa da scosse devastanti, specialmente quelle provenienti da paesi al di là delle Alpi. Ora, un autore su cui ci si dovrebbe soffermare un attimo, per inquadrare il Rinascimento estetico è Michelangelo. Un giorno di svariati anni fa, grazie ad un particolare servizio liturgico che svolgevo in una mia vita precedente, ebbi la fortuna di entrare nella Cappella Sistina quando essa era praticamente semivuota e non assediata da orde di turisti guardoni (devo dire che questa esperienza mi accadrà poi per alcune altre occasioni, sempre con rinnovato piacere). Nell’occasione di questa visita quasi solitaria mi ero ovviamente fissato sulle immagini immaginifiche del grande fiorentino, immagini che incombono dalla volta della celebrata Cappella e anche avevo gettato lo sguardo sull’incombente “Giudizio Universale”. Consentitemi un rapido flashback. In quel periodo, avevo anche avuto la possibilità di visitare con calma quello che rimaneva dell’antica Chiesa di San Crisogono in Trastevere, nella mia Roma. Ora, la Chiesa attuale di San Crisogono mi è estremamente familiare essendo praticamente cresciuto tra questa parrocchia e la mia parrocchia di origine, Santa Maria in Trastevere. Ma la visita alla chiesa sotterranea mi aveva colpito perché avevo fissato l’attenzione su alcuni dipinti che ancora si scorgevano sulle pareti, dipinti medioevali che raffiguravano la vita di santi. Non so perché, tornando alla Sistina, queste due immagini, la presente e quella della chiesa medioevale si fondevano e domandavano una razionalizzazione da parte mia. In cosa, questi dipinti differivano essenzialmente da quelli di San Crisogono? Non stiamo parlando della forma pittorica, non era quella l’essenza del problema, c’era qualcosa di spirituale che tracciava una differenza essenziale fra le due esperienze di fede. Allora cercavo di guardare con attenzione alla volta della Cappella, disturbato solo dal silenzio che rimbombava nella mia anima facendola penare nell’attesa di un senso alle mie, forse non inutili, peregrinazioni intellettuali. Ad un certo punto mi era sembrato di capire qualcosa: osservavo la forma dei dipinti michelangioleschi e vedevo come il pittore avesse curato i dettagli anatomici con una cura particolare, così come mi era capitato di osservare più volte nella Pietà in san Pietro. Quante volte mi ero soffermato, giusto all’entrata della Basilica, spesso in agognata solitudine, a discorrere con le sensazioni che mi arrivavano fluttuando nell’aria e che provenivano da quel regno misterioso in cui solo l’arte e lo spirito hanno diritto di cittadinanza. Guardando quella giovanetta che teneva in braccio un uomo apparentemente più vecchio di lei, che le era madre e figlia (ancora Dante), mi domandavo perché quella cura meticolosa in quelli che sono solo elementi corporali, non dimensioni dello spirito (cosi’ pensavo, almeno). Cosa si nascondeva dietro quest’amore del particolare? Mi sembrava che la risposta a questa questione rivelasse quello che ci era apparentemente nascosto. Continuando a gettare la mia mente oltre me stesso, volevo entrare di più nel mistero. Voleva capire quello che probabilmente mi avrebbe aperto altre porte oltre il visibile, Michelangelo mi stava insegnando una lezione che non avrei dimenticato facilmente, quella della fondamentale differenza fra guardare e vedere. Guardare è puramente una esperienza sensoriale, una esperienza che impegna la nostra vista come organo recettore di immagini; vedere è qualcosa di diverso, qualcosa di più profondo. In effetti la parola stessa sembra provenire da una radice sanscrita, “vid”, che significa “io conosco”. Sappiamo che nell’antica India si venerava una raccolta che aveva come nome “la conoscenza”, che ritradotto nell’antico sanscrito era “Vedas”. Quindi vedere è conoscere. Michelangelo, attraverso la cura del dettaglio non vuole ambire ad un eccesso di realismo, ma vuole condurre la visione dalla realtà all’oltre. Michelangelo ci dice, come ci dirà Caravaggio, che quello che accade nel mondo dello spirito, dalla Creazione al Giudizio finale, non è un avvenimento lontano e quasi irreale, puramente vissuto nel mondo interiore, ma è qualcosa di così reale che potremmo quasi toccarlo. 

Un’influenza determinante sul nostro Michelangelo l’avrà un pensatore che sarà ricordato per aver riportato il nostro Platone all’attenzione generale (neoplatonismo), Marsilio Ficino. Il noto semiologo e già docente alla Gregoriana, Sante Babolin, così ci descrive il pensiero del Ficino: Per Ficino la bellezza rappresenta il riflesso o splendore del sommo Bene nel mondo visibile (…); L’estetica segna il passaggio dal mondo sensibile all’eterno; e la stessa conversione a Dio è opera dell’arte, per la sua forza invincibile di persuasione. Questa idea è dominante nel suo dialogo Sopra l’amore ovvero Convito di Platone. La bellezza è quindi identificata con la grazia: non esistono modelli da imitare; si dà corpo all’idea attraverso una continua tensione verso l’infinito. Tale tensione, in pittura, viene espressa dal contrasto tra la luce e la tenebra. Questa spiritualità avrà un grande influsso in Sandro Botticelli e in Leonardo da Vinci, nel quale la forza della persuasione diventa seduzione” (Sante Babolin, “L’uomo e il suo volto”,  2000 Hortus Conclusus, pag. 32). Così si va dal visibile all’invisibile. Il pensiero neoplatonico verrà anche visto con sospetto da alcuni. Il teologo Ennio Innocenti, nel suo studio sulla Gnosi spuria sospetterà Marsilio Ficino di pensiero non pienamente conforme alla dottrina cattolica, pur assolvendo sostanzialmente il suo allievo Michelangelo. 

Come persuade l’arte? Nelle rappresentazioni medioevali assistevamo a questi corpi quasi stilizzati, spesso persi in una luce dorata che ne impreziosiva le fattezze facendone oggetti/soggetti di ammirazione estatica, più che di contemplazione estetica. Attraverso la riscoperta umanista della centralità dell’uomo in quanto uomo, riscoperta che confluirà nell’agone rinascimentale, la figura umana diventa centrale nella meditazione e nella pratica artistica. Vedendo i corpi perfettamente torniti nelle rappresentazioni michelangiolesche ci fa pensare a come dal dato concreto l’artista ci vuole trasportare al dato invisibile. La salvezza è della persona in quanto persona umana, fatta di corpo e sangue, anima e passioni, altezze e decadenze. La bellezza è lì, la puoi vedere e toccare. Questa bellezza e riflesso della Bellezza, non un pendaglio disdicevole, ma una via che apre all’infinito.

Mi ha fatto sempre pensare un apparente paradosso. Il Rinascimento, come sappiamo, è stato un secolo in cui si è assistito ad un esplosione di arte, creatività e santità senza precedenti. Ma, anche, è stato un  secolo di grande deriva morale nella Chiesa Cattolica; i Papi dai costumi più che rilassati ancora oggi riecheggiano in fin troppe pagine nei nostri libri di storia. Certo, ho parlato di paradosso e non di contraddizione. In effetti questa bellezza ostentata, ricercata nel più piccolo dettaglio anatomico, respirata in ogni via e viuzza, questa bellezza ha anche il suo effetto secondario. Potrei anche fare menzione della mistica e della sua “deriva”, la pazzia per Dio (Cfr. Marcello Del Vecchio, Misticismo paranormale e follia, Guida editori pag. 19. In effetti questo testo fa menzione anche di un passaggio in san Paolo in cui si dice che i cristiani sono “stoltezza”. Sembra esserci un rapporto rovesciato con quella che viene definita la sapienza del mondo. Gesù stesso, come forma di cristianesimo più puro invita ad essere non come i dotti, ma come i bambini). Ora, è evidente che la bellezza così cercata nell’epoca rinascimentale possa esplodere poi in mille forme sotterranee, intossicando coloro che di bellezza si circondano. Questo fenomeno è evidente anche nelle vite di tanti artisti, che sono esposti continuamente alla bellezza, che la cercano ardentemente. Spesso le loro vite private sono caotiche, sempre alla ricerca di soddisfare questo bisogno di bellezza anche nella ricerca di piaceri sessuali. C’è un collegamento fra la bellezza ricercata nell’arte e la bellezza cercata (e usata, si potrebbe dire) ricercata nel piacere effimero? Vorrei escluderlo ma non me la sento. L’artista illumina la società in cui vive e per illuminare spesso deve bruciare lui stesso. Questo fuoco che lo divora lo porta a lente agonie fatte di cento spasimi nei mille anfratti impregnati di peccato. Ripeto, c’e’ un collegamento fra la ricerca della Bellezza e la ricaduta nella bellezza così vilmente cercata? Mi piacerebbe dire che non c’è per salvare le apparenze di un mondo che ci piacerebbe quadrato, ma il mondo è rotondo, non ha ne inizio e né fine, il suo senso non si basa sul consenso, su quello che vorremmo che fosse. Quindi la contraddizione fra licenziosità dei chierici rinascimentali e esplosione artistica specialmente nell’arte sacra, in effetti, potrebbe non esserci. Non si vuol dire che il peccato fa l’arte più bella, si vuol dire che l’arte bella può ubriacare, come il buon vino. E stiamo parlando di persone che ricercano piaceri carnali o materiali che sono bagaglio della nostra (decaduta) natura umana. Nulla a che vedere con le turpitudini di cui ascoltiamo in questi ultimi mesi a danni di innocenti. Qui non c’è nessuna ricerca di bellezza, c’è solo una natura malata. Io sono certo che il Papa Benedetto XVI soffriva enormemente per il male che si procurava alle anime di tanti innocenti ingannati da persone di cui si fidavano per l’abito che esse portavano (e in alcuni casi ancora portano). E immagino anche il presente Pontefice soffrire enormemente per questo.

Un altro genio della bellezza nel Rinascimento, il “musicista teologo”, come sarà definito è Giovanni Pierluigi da Palestrina, compositore astrale e massimo rappresentante di quella che viene chiamata la “Scuola Romana”. Le caratteristiche di questa scuola romana, che sono esemplificate nel nostro autore sono: la cantabilità, il prediligere il singolo cantore alla massa corale, l’attenzione assoluta al testo sacro, l’adesione piena della musica al rito liturgico, senso forte della Tradizione, la pratica della cantoria, una grandiosità delle concezioni unita anche ad una penetrazione del testo nei più segreti ambiti emotivi, diremmo oggi, psicologici. I repertori che come modello assoluto contengono al meglio queste caratteristiche sono il canto gregoriano e la polifonia rinascimentale. Non dimentichiamo inoltre, che la musica occidentale ha un debito enorme verso la pratica musicale della Chiesa cattolica, da cui scaturiranno poi le molte forme sacre e profane che hanno dato gloria alla nostra civiltà.

Quanto da me detto ha anche una conferma ufficiale dalle parole di un Papa, che è anche santo, Pio X. Il Motu proprio di San Pio X (22 novembre 1903) dopo aver affermato che la vera musica sacra deve avere come qualità principali, la bontà di forme, la santità e l’universalità, dice: Queste qualità si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto che essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici, che come suo direttamente propone ai fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza. Per tali motivi il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e più liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme (…). Le anzidette qualità sono pure possedute in ottimo grado dalla classica polifonia, specialmente della scuola Romana, la quale nel XVI secolo ottenne il massimo della sua perfezione per opera di Pierluigi da Palestrina e continuò poi a produrre anche in seguito composizioni di eccellente bontà liturgica e musicale. La polifonia assai bene si associa al supremo modello di ogni musica sacra, che è il canto gregoriano, e per questa ragione meritò di essere accolta insieme col canto gregoriano, nelle funzioni solenni della Chiesa, quali sono quelle della Cappella Pontificia(…).” (Motu proprio II, 3-4). Quale è la grandezza di questo autore? Io mi sento talvolta anche inadeguato a parlarne. In un certo senso il suo è un approccio Michelangiolesco, ma in lui umano e divino si fondono in una bellezza che sembra veramente venire da una dimensione altra. È l’abbandono mistico alla voce di Dio che ci parla attraverso la musica. Se si ascoltano i suoi mottetti, Sicut Cervus, Super flumina Babylonis, Ego sum Panis vivus, sembra che un altro mondo ci stia tendendo la mano, sembra che il dolore, ogni dolore, la gioia, ogni gioia, si fonde in una dimensione che è “oltre”.  Le nostre orecchie possono ascoltare queste polifonie formalmente ineccepibili, ma il nostro cuore non può che intuire quell’attimo di eterno che si riversa nel pesante istante. Mentre gli uomini di Dio si difendevano dallo splendore dell’arte che loro stessi avevano contribuito a creare, il nostro intesseva di contrappunti il suo ordito spirituale. E all’ascolto, ogni cuore si incendiava di somma gioia.











































mercoledì 23 dicembre 2020

Dante Alighieri e la bellezza


Come visto, sul finire del periodo medioevale si cominciavano ad appalesare diverse tendenze “estetiche”. Allora, al tempo in cui si cominciavano le riflessioni sulla bellezza anche nella sua accezione materiale e corporea, non soltanto spirituale, alcune correnti di pensiero cominciavano a farsi strada e a pretendere l’ossequio dei dotti. Duns Scoto, celebre pensatore, ci da una definizione dell’arte di questa natura: L’arte si trova in una tale relazione con i suoi prodotti, come la prudenza con l’azione, perché è la giusta concezione e di ciò che verrà prodotto (Coll. I, n. 19). Quindi, se ben intesa questa sentenza, l’arte è scovare l’essenza nei suoi soggetti. In questo senso, verrebbe da dire, l’arte è più vera del vero perché non si ferma al livello apparente delle cose ma le penetra in una dimensione essenziale che all’occhio che guarda, sfugge. Questa constatazione deve essere intesa rettamente e meditata in tutte le possibili implicazioni, teologiche, fisiologiche, filosofiche ed estetiche. Questa riflessione è fondante in ogni discorso che ha come oggetto quella strana parola, “arte”, così difficile da definire.

Io penso sarebbe anche il caso di accennare qui alla fondamentale differenza che esiste fra guardare e vedere. Il guardare attiene ad un processo fisico, per cui una certa qualità di luce viene filtrata dagli occhi e, con un mirabolante processo cerebrale, si trasforma in immagini. Il vedere è la capacità di fare senso delle cose, non necessariamente attraverso la sola vista. Il vedere interpreta i dati forniti dal guardare. Ora, in che modo il dato esterno influenza quello interno? In che modo quello che è al di fuori si fa senso all’interno della nostra coscienza? Guglielmo di Ockham ci dice che Bellezza è una propria proporzione delle membra in congiunzione con un corpo sano (“Summulae in libros physicorum”, III, c. 17, p. 69). In che modo la definizione di Guglielmo si fa senso nell’ottica del vedere? In che modo si passa dal guardare al vedere? Queste questioni sono molto più complesse di quello che si pensa. Non basta un semplice appello al senso critico per garantire questo passaggio da una dimensione all’altra. Ma la differenza fra queste due dimensioni è per me uno dei pilastri della riflessione sull’estetica e sulla teologia. Ancora Guglielmo di Ockham ci dice: L’idea non è qualcosa di reale, perché è un nome connotativo e relativo. L’idea è qualcosa concepito dalla mente attiva, che, nel guardare ad essa, può produrre qualcosa che esiste nella realtà” (Quaestiones in IV Sententiarum Libros I, d. 35, q. 5). Quello che  chiama la “mente attiva” è ciò che da senso e forma alla realtà che noi viviamo, è il prodotto del vedere. Ora, come chiamare questo elemento vitale oggi è una questione su cui non è facile dare una risposta. Ma già nella riflessione tardo medioevale questo elemento era stato chiaramente individuato. Noi proviamo piacere in una giusta proporzione delle cose, ma da dove scaturisce questo piacere nel processo cognitivo che legge (guarda) e interpreta (vede) la realtà? La risposta a questo interrogativo non può che pervadere i secoli successivi.

Una delle grandi voci che nel XIII secolo contribuiranno alla riflessione sulla bellezza e la teologia è quella di un uomo che non era tecnicamente un filosofo ma faceva anche filosofia, non era tecnicamente un teologo ma faceva anche teologia (e grande teologia), era un’umanista straordinario e poeta sommo: Dante Alighieri. Dante (1265-1321) è considerato il più straordinario poeta italiano di ogni epoca, la sua Divina Commedia è un bestseller che non cessa mai di stupire per la sua profondità e bellezza.  La fortuna di Dante, non solo nel mondo letterario nostrano, è qualcosa che lascia stupiti. Mi sono sorpreso molte volte nel costatare legioni di dantisti oltreoceano e il rispetto che in ogni luogo si porta per questo gigante della letteratura mondiale.

Il concetto che è centrale alla riflessione dantesca è quello di “amore”. L’amore era la donna amata, ma essa viene talmente spiritualizzata che non si sa se si parla di una bellezza in carne o di un angelo. Nel notissimo sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” (Vita Nova) questa visione della bellezza dell’amore (o dell’amore della bellezza) viene fuori potentemente. Gia’ nel primo e nel secondo verso Tanto gentile e tanto onesta pare, la donna mia quand’ella altrui saluta... c’e’ un tipo di lettura che credo andrebbe proposta. La parola “pare” che nell’italiano moderno interpretiamo come “sembra” qui è più simile al verbo “apparire”, quindi “Tanto gentile e tanto onesta appare...”. La visione delle virtù morali come segno di bellezza, già trovata in Agostino e Tommaso d’Aquino e non assente in tutta la tradizione estetico-spiritualistica non da ultimo con Bernardo, qui si incarna nella donna amata, che simboleggia il bello ma che in realtà nella sua materialità è raggiungibile. Ciò che è bello non è veramente la donna amata, ma l’amore in se stesso che fa bello ciò che tocca, l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

Quindi la donna “appare”, come una celeste visione. Ma cosa può comprovare questa interpretazione? I successivi due versi “ch’ogne lingua deven tremando muta,/ e li occhi no l’ardiscon di guardare” Se si leggono con attenzione questi versi e ci si domanda a quale bellezza si riferiscono, non ci si può decidere se il poeta stia parlando di una vera donna od una apparizione celeste: la sua bellezza è così sfolgorante che l’uomo è ridotto al silenzio, non per sua volontà ma quasi per una volontà superiore (infatti lui vorrebbe dire qualcosa ma la lingua tremante gli impedisce la parola). Gli occhi non ardiscono di guardarla: non sembra una contraddizione? Se una cosa è bella perché non guardarla? Ma qui abbiamo un paradosso, che è un’apparente contraddizione.  Qui Dante è come Elia (Libro dei Re) che alla presenza del Signore si copre il volto. Perché vuole vedere ciò che non può vedere? Perché non vedendo, vede. Credo sia interessante analizzare questo punto, del vedere la bellezza con una visione che non è meramente quella intellettuale, è quasi un’intuizione che precede il dato sensoriale. E questa bellezza, nella riflessione dantesca, è di origine divina ma non in un senso spiritualistico, essa non esclude l’elemento umano anzi lo suppone. In questo senso non mi trovo molto d’accordo con il commento a questo sonetto di Luciano Rebay quando dice che Beatrice è ritratta non come un essere umano ma come un angelo la cui presenza in terra è un miracolo” (Luciano Rebay, “Introduction to Italian Poetry” , Courier Dover Publications 1991, pag. 25). La realtà di questo sonetto mi sembra molto più complessa di quello che si può dedurre da questo commento. Certo l’elemento spiritualizzante vi è presente in modo estremamente forte ma non credo vada letto in senso spiritualistico e credo che la lettura non in questo senso è garantita dal poeta stesso.

Ricordiamo il passaggio che può sembrare un poco enigmatico che si trova nel trentesimo canto del Purgatorio  (127-129) in cui Beatrice, che si rivolge al poeta in viaggio nel mondo soprannaturale dice: Quando di carne a spirto era salita,/ e bellezza e virtù cresciuta m’era,/ fu’io a lui men cara e men gradita. In questo passaggio la donna ricorda come, dopo il suo passaggio nell’altro mondo, il poeta si era dato ad una nuova donna. Questo cambiamento di stato aveva accresciuto bellezza e virtù in Beatrice. Quindi, la prospettiva che mi sembra qui presentata non è tanto quella che l’amore divino riflette quello umano, ma semmai l’amore umano è via  a quello divino. Anche se può non sembrare, ma c’è un cambiamento deciso di prospettiva. L’amore umano e divino formano un mistero che è di difficile decifrazione.

Quando la donna oggetto del sonetto si avanza, essa è consapevole delle lodi che attira ma non se ne inorgoglisce perché essa è “d’umiltà vestuta”. Anche qui echeggia il vangelo con Gesù che invita a essere miti ed umili di cuore. Quindi la bellezza che il poeta loda in una donna di cui era certamente innamorato è così bella che appare in tutta la sua nuda semplicità. E la donna, si mostra così bella, che sembra venuta a mostrare un miracolo, cioè la sua stessa bellezza. La bellezza che per le scale/ de l’etterno palazzo più s’accende, come hai veduto, quanto più si sale (Paradiso XXI 7-9). Qui credo bisogna essere attenti a non fare un semplice errore (dal mio punto di vista); non è che la bellezza più si spiritualizza e più è bella, ma il discorso è che essa più la si penetra, più nell’atto di questo essere penetrata si spiritualizza (nel senso di sprigionare un’essenza spirituale, non di perdere la sua valenza materiale) e più si fa bella come frutto di questo processo vitale. Essa è così bella che attraverso gli occhi da un grande piacere al cuore che ’ntender non la può chi no la prova”. Chi non prova questa esperienza non la può capire. Mi sembra anche un discorso sui limiti del discorso artistico ed estetico. La bellezza non si può spiegare ma la si deve provare, la deve vivere nel suo manifestarsi. Questo credo ci potrebbe condurre, in ogni campo, al discorso sui limiti del teorizzare che però in questo caso sarebbe troppo complesso affrontare.

Nell’ultima terzina ritorna quel “par”, in questo caso riferito ad uno “spirito soave”, che il poeta ci dice pieno d’amore e che all’anima dice “sospira”. Soffermiamoci su questa ultima parola con un poco di attenzione. Essa deriva dal latino e significa “respiro dal profondo”. La bellezza che si comunica al cuore (in questo caso visto come sede dei sensi e anche dell’uomo intellettuale, come nella Bibbia, non nell’accezione tarda) tramite uno spirito soave che è pieno d’amore da un messaggio all’anima. Quale è questo messaggio? Respira dal profondo. Sembra strano? Forse non lo è. Il respirare è atto vitale per eccellenza, è ciò che ci fa vivere. La bellezza, rappresentata qui da Beatrice, risveglia la nostra vita, ci permette un respiro dal profondo perché fa sì che noi possiamo essere ciò che veramente siamo, la bellezza ci fa essere noi stessi, il vero noi stessi, non semplici automi guidati da impulsi e istinti.  La bellezza nutre una sorta di respiro profondo, che come sappiamo sarà anche una tecnica molto usata in tradizioni mistiche anche non riconducibili alla tradizione giudaico cristiana. Al centro c’è Dio, ma al centro di Dio c’è l’uomo.

Questo messaggio della centralità dell’uomo nel piano di Dio mi sembra quello che più bisogna meditare nella riflessione dantesca e la bellezza non può che essere via a questo. Essa è via e meta, in un certo senso, in quanto essa conduce ma è anche il premio di chi è condotto. In che modo questa centralità vada intesa, questo è un altro problema ed è di non facile soluzione, malgrado si possano spendere molte parole su questo argomento. La bellezza che porta a Dio porta anche all’uomo e lo vivifica, secondo Dante, in una maniera che lo fa essere più se stesso. Naturalmente l’eco perenne di sant’Agostino non cessa di far sentire i suoi rintocchi. Tornare in se stessi, guardare alla bellezza nella sua essenza vera. Noi purtroppo siamo racchiusi fra gli eccessi del carnalismo e dello spiritualismo e facciamo fatica a sollevarci da questi. Ecco perché i giganti che ci hanno preceduto nel passato sono per noi un faro non per guardare, ma per vedere.




































lunedì 21 dicembre 2020

Il medioevo e la bellezza: Ugo di san Vittore, san Bonaventura e San Tommaso d’Aquino

 


Nel parlare di San Bernardo e dell’abate Suger, si è potuto costatare come il contrasto tra bellezza apparente e bellezza non apparente fosse particolarmente forte. Questo tema pervaderà il pensiero medioevale a venire. Diverse correnti teologiche e filosofiche si daranno battaglia, in nome di concezioni aristoteliche e platoniche che influenzeranno la filosofia medioevale in modo forte e profondo. Spesso si è sottovalutata l’enorme ricchezza della filosofia e della teologia medioevale in nome di un disprezzo per questi secoli troppo spesso poco conosciuti e poco considerati. La vogue anti-medioevale, spesso in chiave anti-cattolica, non ha smesso anche oggi di far sentire la sua voce, anche se sempre più fioca e stridente, vista la rivalutazione storiografica in atto. Il medioevo fu fecondo di pensatori straordinari, come già visto e come andiamo ancora a vedere.

Per avere un’idea di questo ci dobbiamo muovere di non molto, rispetto a Bernardo e Suger. Dobbiamo andare nei pressi di Parigi, a Boissise Le Roi. Qui avremmo trovato un’Abbazia con un destino importante per la storia della filosofia e teologia medioevale: l’Abbazia di san Vittore, centro irradiante di una corrente di pensiero influente e i cui esponenti verranno chiamati “vittorini”. L’Abbazia ospitava una comunità di canonici regolari, che cioè basavano la loro vita comune sulla regola di sant’Agostino. Alcuni nomi sono noti: Riccardo di san Vittore, Guglielmo di san Vittore, Ugo di san Vittore. Per gli scopi di questo scritto ci occupiamo di quest’ultimo. Ugo di san Vittore (1096-1141) fu pensatore originale e profondo (l’università degli Studi di Siena mette a disposizione online un Manuale di storia e filosofia medioevale da cui si è tratto alcune informazioni presenti in questo scritto. Il progetto è consultabile all’indirizzo www.unisi.it. Tra le opere consultare è da segnalare History of Aesthetics in tre volumi di Wladyslaw Tatarkiewicz, J. Harrel, Cyril Barret, D. Petsch. Questa opera è veramente importante per una prospettiva storica della visione estetica in diversi autori altrove difficilmente reperibile. Altra opera importante da me consultata è Arte e Bellezza nell’Estetica Medioevale, di Umberto Eco, pubblicata per le edizioni Bompiani, e già segnalata in precedenza). In lui troviamo un atteggiamento diverso rispetto a quello di san Bernardo nei riguardi della bellezza visibile. In Ugo c’è una considerazione più positiva rispetto al rigorismo cistercense. Ugo cerca di non mettere contro sapere profano e sapere sacro, ma cerca di armonizzarli in una forma per cui l’uno prepara all’altro. La sua opera maggiore è il Didascalicon, in cui affronta temi legati all’arte secondo la sua particolare prospettiva.

La bellezza visibile, per il nostro Ugo, prepara alla bellezza invisibile, quella spirituale che ovviamente il nostro apprezza sommamente. La bellezza visibile fa nascere in noi un admiratio delle cose contemplate, il che poi ci conduce alla delectatio delle stesse. In Ugo grande importanza viene dedicata all’immaginazione, l’apoteosi dei nostri sensi. L’immaginazione è ciò che cattura la bellezza. Secondo Ugo la bellezza invisibile è simplex et uniformis, mentre la bellezza visibile è multiplex et varia proportione conducta. Per Ugo la bellezza visibile si compone di quattro elementi: Situs (ordine o arrangiamento delle cose), Motus (movimento), Species (apparenza che viene catturata dalla vista) e Qualitas (qualità). È molto interessante questa concezione che deriva dal pensiero di Ugo di san Vittore: la bellezza materiale, quella visibile, quella “fatta” (cioè artistica nel vero senso della parola seconda la concezione medioevale che lega il termine “Ars” ad un fare), si esplicita nella complessità di un arrangiamento di diversi elementi. La bellezza invisibile, spirituale, in sé sussistente, si riduce all’essenzialità, alla ricerca di una unità fondamentale e fondante.  La bellezza che viene dallo spirito è una reductio ad unum, un filo rosso che è dietro tutte le cose, una costante che si annida nell’incostante. Il rapporto che consegue tra bellezza visibile e bellezza invisibile, grazie alle suggestioni del nostro pensatore, apre nuovi orizzonti di riflessioni. Fa pensare a come molte volte i fautori della bellezza visibile hanno cercato di aprirsi a quella bellezza invisibile che sola parla di assoluto. Quanti artefici del bello hanno cercato un criterio unificante, semplificatore, unificatore per far in modo che una voce  originaria si levasse dalle loro opere per riportarci al senso primo e primario. In questa prospettiva il pensiero del nostro mi sembra degno della massima attenzione.

Come già osservato, ci si trova in questo periodo nel bel mezzo di varie tendenze e movimenti teologici e filosofici, di cui si dirà ancora poco più in là.  Come osservato negli autori discussi in precedenza, una influenza non trascurabile è da attribuire al pensiero platonico filtrato da Sant’Agostino. Questa influenza si farà sentire anche nel pensiero portato avanti dai teologi appartenenti ad una congregazione che da non molto fa parlare di sè, quella francescana. Quindi vale la pena di parlare di uno dei massimi rappresentanti del pensiero francescano, Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274). Bagnoregio è un incantevole paesino nei pressi di Viterbo. Poco si sa dei parenti del nostro Bonaventura (che originariamente si chiamava Giovanni). Egli si unisce all’ordine francescano in un periodo che va dal 1238 al 1243. Studia all’università di Parigi sotto Alessandro di Hales. Fu Ministro Generale del suo ordine e successivamente Cardinale di santa Romana Chiesa. Sisto IV lo canonizzerà nel 1482 (notizie su san Bonaventura sono reperite in un articolo di da Paschal Robinson nel 1907 per Catholic Encyclopedia).

Secondo gli studiosi, possiamo racchiudere l’”estetica” di san Bonaventura in quattro idee fondamentali: il mondo è bello (ottimismo estetico), il mondo è bello nella sua interezza (integralismo estetico), la vera bellezza deve essere cercata in Dio (trascendentalismo estetico), la bellezza dell’anima è superiore alla bellezza del corpo. In Bonaventura troviamo anche una estetica della luce, ripresa da Sant’Agostino: “Quanto splendore ci sarà quando la luce del sole eterno illuminerà le anime glorificate…Una gioia straordinaria non può essere nascosta, se erompe in gaudio o in giubilo e canti per quanti verrà il regno dei cieli” (Sermones VI in Umberto Eco, op.cit. pag. 65). E Umberto Eco continua così: “Nel corpo dell’individuo rigenerato nella risurrezione della carne, la luce rifulgerà nelle sue quattro proprietà fondamentali: la claritas che illumina, l’impassibilità per cui nulla può corromperla, l’agilità, quia subito vadit, e la penetrabilità per la quale attraversa i corpi diafani senza corromperli. Trasfigurato nella gloria dei cieli, le proporzioni originarie risolte in pure rifulgenze, l’ideale dell’homo quadratus [“Nella teoria dell’homo quadratus il numero, principio dell’universo,  viene ad assumere significati simbolici, fondati su serie di corrispondenze numeriche che sono anche corrispondenze estetiche” (Umberto Eco, op. cit. pag. 47)] ritorna come ideale estetico anche nella mistica della luce” (Umberto Eco, op. cit. pag. 65). Come vediamo, spiritualità, cosmologia, filosofia ed estetica camminano a braccetto nella riflessione dei medioevali.

Ora la nostra riflessione estetico/estatica ci porta ad avvicinarci ad uno degli uomini chiave del pensiero teologico del medioevo e, detto con chiarezza, del pensiero teologico tout court. In tutta onestà dovrei dire “l’uomo chiave”, in quanto tanta teologia, anche nella sua veste ufficiale e magisteriale, si è identificata con l’insegnamento di questo frate domenicano, decisamente sovrappeso ma dotato di una intelligenza straordinaria. Sto parlando di san Tommaso d’ Aquino (1225-1274). Come si può notare, il nostro passerà a miglior vita nello stesso anno di san Bonaventura, quattro mesi prima: Tommaso in marzo (7), Bonaventura in luglio (16). Ma Tommaso avrà un’influenza sulla teologia a venire che sarà estremamente più importante di quella del francescano.

Ora, la riflessione sulla bellezza tomista si muove da alcuni presupposti derivanti da Platone, Plotino, lo Pseudo Dionigi e Sant’Agostino: c’è una bellezza per i sensi ma c’è anche una bellezza intellettuale; c’è una bellezza imperfetta che noi conosciamo tramite i sensi ma esiste anche una bellezza perfetta di natura soprannaturale; la bellezza imperfetta è un riflesso della bellezza perfetta; la bellezza differisce concettualmente, non in sé stessa, dal buono, perché tutte le cose buone sono belle e tutte le cose belle sono buone; la bellezza consiste di proporzione (consonantia) e luminosità (claritas). Come vediamo la bellezza trascendentale è sempre al centro della riflessione estetica del nostro, ma c’e’ un movimento più che sensibile verso la bellezza materiale e visibile. Anche presente l’influenza del suo grande predecessore tra i teologi domenicani: San Tommaso si occupa della visione soggettiva del bello nel riprendere le nozioni estetiche propostegli da Alberto Magno(Umberto Eco, Op. Cit. pag. 107). Quello che si definisce tomismo, è in effetti il coacervo di molte esperienze filosofiche, a partire dall’aristotelismo fino ad arrivare alla riflessione teologica in atto ai tempi della vita del santo senza dimenticare la filosofia araba.

Se chiedessimo al nostro una definizione della bellezza egli, generosamente, ce ne fornirebbe due: cio’ che da piacere nell’essere guardato (quae visa placent - “Il bello, invece, riguarda la facoltà conoscitiva; belle infatti sono dette quelle cose che viste destano piacere” Summa Theologiae, Pars Prima, Q 5, Art. 4). e ciò che da piacere nell’essere percepito (cuius ipsa apprehensio placet - “E’ perciò evidente che il bello aggiunge al bene una relazione con la facoltà conoscitiva: cosicché si chiama bene quello che e’ gradevole all’appetito; bello invece cio’ che e’ gradevole per la sua propria conoscenza” Summa Theologiae I, Pars Secunda, Q 27, Art. 1, 3). Sembrano definizioni che non vanno d’accordo. Da una parte ci si riferisce meramente alla vista, cioè a qualcosa che può essere visibile, dall’altra parte ci parla della percezione in generale. Ma Tommaso spiegherà che quando si riferisce alla vista, per lui il più perfetto dei sensi, nella sua terminologia è simbolo di tutti gli altri sensi. 

Per san Tommaso la bellezza deve possedere alcune caratteristiche: proporzione, splendore, forma, bellezza morale, utilità e consistenza. Proporzione perché i nostri sensi provano piacere nell’arrangiamento delle cose secondo un certo ordine. Trovo interessante fare una sorta di unione tra il pensiero tomista e le moderne scienze neurologiche che studiano i meccanismi per cui troviamo piacere nel vedere o ascoltare certe cose piuttosto che altre. In quello che noi definiamo proporzione, certi messaggi visivi od auditivi sono ripetuti e sistemati in modo che il nostro cervello trova piacevole decodificare. Quindi l’arrangiamento armonico di questi “patterns” produce quella sensazione gratificante che noi interpretiamo come “piacere estetico”. Splendore, perché noi troviamo piacere in colori vivaci: “Per la bellezza infatti si richiedono tre doti. In primo luogo integrità o perfezione: poiché le cose incomplete, proprio in quanto tali, sono deformi. Quindi (si richiede) debita proporzione o armonia (tra le parti). Finalmente chiarezza o splendore: difatti diciamo belle le cose dai colori nitidi e splendenti” (Summa Theologiae, Pars Prima, Q 39, Art. 8).  Nella forma, ogni cosa è connaturata alle altre cose. La bellezza morale, perché la bellezza visibile è riflesso di quella invisibile e quindi ne riflette l’essenziale bontà.  La cosa bella è bella perché serve lo scopo per cui è stata creata. Da ciò anche deriva che la sua bellezza risiede nella consistenza delle parti con il tutto, ogni cosa formando un elemento di un insieme in sé armonioso e coerente. Come vediamo Tommaso mette la sua riflessione teologica al servizio anche del visibile. In pochi decenni, questo esploderà in modo inaspettato.