giovedì 26 marzo 2020

Le altre malattie (podcast)

Le altre malattie

Come tutti sappiamo, in questi giorni c’è un tema unico che straborda da ogni parte: l’epidemia di coronavirus. Questo è anche comprensibile, considerando i gravi disagi che sta portando nella vita di tutti noi. Questa epidemia, non ha soltanto un impatto sanitario, ma ne ha anche uno importante dal punto di vista economico e uno anche dal punto di vista spirituale. Il modo in cui noi oggi possiamo vivere la nostra vita spirituale e liturgica è profondamente diverso rispetto a qualche settimana fa. Ma di questo parleremo in un’altra occasione.
Quello che mi sembra importante notare, è che il coronavirus ha praticamente messo tra parentesi ogni altro disturbo, potenzialmente anche molto più grave e molto più letale. Pensateci, se qualcuno improvvisamente si ammala di un’altra malattia che non ha nulla a che fare con questo virus, ci sono difficoltà enormi per potere andare negli ospedali, i medici di famiglia sono virtualmente inaccessibili se non per telefono o per e-mail, moltissimi studi privati hanno chiuso o hanno sospeso gli appuntamenti. Quindi, mi chiedo, cosa accade a coloro che nel frattempo si ammalano di altre malattie che necessitano cure urgenti?
Sembra un problema con cui non ci si vuole confrontare al momento, visto che siamo nel pieno di una emergenza sanitaria, ma in realtà se ci pensate bene la percentuale di persone che sviluppa sintomi non relativi all’infezione da coronavirus ma ad altre centinaia di possibili malattie non è certamente piccola, probabilmente è anche maggioritaria rispetto a coloro che si infettano con il coronavirus. Eppure queste persone si trovano quasi sempre delle porte chiuse e, come si dice in gergo popolare, “non sanno dove sbattere la testa”.
Tutti affermano che questa epidemia cambierà il mondo, e anche io sono convinto di questo. Certamente questa emergenza ha messo in piena luce tutti i limiti del nostro sistema sanitario, tutte le grandi deficienze che stanno oggi pesando in modo sconvolgente sulla vita di tante persone. Ricordo come nel passato, in molte zone della mia Roma, ci fossero tanti ospedali spesso fondati e tenuti da religiosi o religiose. Io vivo al centro, e solo intorno a me in tempi recenti sono stati praticamente chiusi o adibiti ad altro uso almeno due importanti ospedali, originariamente nati come opere della Chiesa cattolica. Si dà molta enfasi al fatto di assistere i bisognosi, ma non dobbiamo dimenticarci che la Chiesa questo lo ha fatto sempre, non fissandosi su certe categorie soltanto, ma assistendo tutti coloro che avevano veramente bisogno.
Questa emergenza, ha messo in luce delle carenze importanti, come quella che io ho esposto all’inizio: cosa si deve fare se ci si ammala di qualche altra malattia proprio in questo periodo? Questo lo dico perché è capitato a me di avere una emergenza sanitaria proprio nei giorni in cui si decideva la chiusura di tutto, e ho dovuto penare enormemente e spendere notevoli somme di denaro per avere un po’ di assistenza da un medico che sono riuscito a trovare privatamente. Purtroppo, il problema che avevo doveva essere gestito da un medico, in quanto implicava una cura a base di medicinali che non mi potevo auto prescrivere. 

Io credo questa è un’occasione per riflettere sulla tenuta del nostro servizio sanitario, ma è anche un’occasione per la Chiesa cattolica per riflettere sulla propria vocazione “sanitaria“. Non che la Chiesa sia una ONG, ma attraverso il servizio a coloro che soffrono, tutti coloro che soffrono quale che sia la loro provenienza geografica, essa ha sempre mostrato il volto misericordioso di Gesù. Oggi tante strutture sanitarie ecclesiastiche sono in gravissimi guai finanziari, anche per la cattiva gestione economica in seno alle congregazioni stesse. Poi, molti ospedali cattolici, sono cattolici soltanto di nome ma non di fatto, in quanto in essi si svolgono a volte pratiche o vengono dati consigli medici che apertamente oppongono la morale cattolica. Insomma, una sana riconsiderazione del proprio ruolo a servizio di coloro che soffrono potrebbe essere uno dei frutti più significativi di questo periodo così grave che stiamo vivendo.

mercoledì 25 marzo 2020

Il cuore del respiro

In questi strani giorni di reclusione domestica, per via dell’epidemia di coronavirus, sento molto parlare dei sintomi dello stesso virus, fra i quali c’è quello della difficoltà a respirare. Questo, mi fa riflettere ancora di più sull’importanza del respiro non solo, ovviamente, per la nostra vita di tutti giorni, ma anche per il canto. Sappiamo bene come il canto ben fatto, il belcanto, si basa soprattutto su una buona respirazione, sul saper appoggiare il suono sulla colonna d’aria che sale. Questi concetti, che hanno forse una certa astrattezza quando li si incontra, sono non di meno fondamentali per una buona comprensione del fenomeno canoro.
Il didatta Antonio Juvarra, così afferma in un bel testo su questo argomento disponibile online (voceartistica.it): “Un esordio teatrale, ad effetto, vagamente marxiano, per introdurre il discorso sul ruolo della respirazione nel canto potrebbe essere: “Finora gli scienziati hanno cercato di capire la realtà materiale, esterna, visibile della respirazione e del canto, si tratta adesso di penetrarne il retroscena invisibile.” In effetti anche la respirazione e il canto, come succede con gli aspetti più profondi e significativi della vita, manifestano la natura bidimensionale, a due facce, esteriore ed interiore, della realtà, facce che non sempre coincidono e che non sempre necessariamente devono coincidere, ma di cui è importante comunque capire i rapporti come pure le sfasature”. Certo, è importante concepire la respirazione non solo come un fatto meccanico, ma anche come un fatto metafisico. Questo è un ostacolo per molti didatti contemporanei, fissati su “quello che funziona“, sulla scia di un certo pragmatismo di marca statunitense. Ma in effetti sappiamo come la respirazione, anche al di fuori del suo uso per il canto, viene usata per favorire le capacità introspettive delle persone, per esempio nella meditazione. Continua lo Juvarra nel testo citato: “Non si capisce neppure con quale arbitrio i sedicenti moderni continuatori di una tradizione belcantistica italiana, la quale esplicitamente riconosceva nel rapporto ‘fiato/parlato’ le due ali senza le quali il canto non può volare (e basti citare le parole del Farinelli ottocentesco, Pacchierotti, che affermava che “chi sa ben respirare e ben sillabare, sa ben cantare”) accettino e pubblicizzino soltanto la seconda parte di questo binomio e disinvoltamente buttino nel cestino la prima, a causa dell’uso semplicistico che essi fanno del concetto di semplicità. Con lo stesso criterio saremmo autorizzati a fondare una didattica pianistica basata sull’uso di due dita, invece che di due mani, una ‘two finger level playing’, solo perché più semplice della tradizionale tecnica a dieci dita…....Sbandierando acriticamente lo slogan della semplicità e della facilità, concepiti come assoluti, si dimentica insomma che l’approccio allo studio del canto dev’essere sì naturale, ma nel senso di partire dalla natura superficiale per arrivare alla natura profonda. La tecnica, la vera tecnica è semplicemente il mezzo per arrivare a questa profondità. Tutta la tradizione vocale è lì a testimoniare, con le sue strane espressioni come ‘appoggio’, ‘cantare sul fiato’, ‘colonna del fiato’, che il fenomeno della respirazione nel canto, pur rimanendo profondamente naturale, non ha niente a che fare con l’esperienza della respirazione utilizzata parlando. Illudersi che quest’ultima possa essere usata come modello definitivo di coordinazione muscolare per il canto è come illudersi che spingendo a trecento all’ora una macchina, questa possa ipso facto prendere il volo come un aeroplano….Si può dire in sintesi che un’operazione di questo tipo, che sulla base di un equivoco concetto di naturalezza, proponga come modello la respirazione parlata o riproponga una respirazione toracica, entrambe semplificate delle componenti diaframmatico-addominali concepite come complicazione superflua, non può che portarci al punto di partenza, quello da cui è partita l’esigenza, nella metà dell’Ottocento, di mettere in luce anche la dimensione della profondità e non solo dell’altezza”. Insomma, c’è un elemento profondo che si innesta su quello naturale, ed è questo che lo studio deve essere in grado di tirare fuori.
Enrico Stichelli (enricostinchelli.it) nel suo blog così afferma: “Pavarotti, ai suoi allievi, poneva il pugno sull’addome e poi li invitava a cantare: in pratica, per non soffocare, si veniva costretti a contrapporre la propria spinta muscolare a quella della mano di Lucianone: un bel training.Le cantanti antiche usavano i bustini, con i lacci ben stretti. Il baritono Valdengo mi raccontò del suo incontro con Beniamino Gigli che, vedendolo giovane ,magro e asciutto, disse:” Sicuramente non canti ancora bene, hai la pancia a pisciatoio (cioè concava, all’indentro). Quando sarai rotondo come me, allora canterai bene.” Gigli non intendeva “rotondo” per “grasso”, ben inteso: parlava ovviamente del muscolo, che inevitabilmente si forma appoggiando  e  sostenendo il suono per il canto lirico.  Maestri  indiscussi  di  canto  'sul  fiato'  sono  stati  Carlo Tagliabue, Tito Schipa, Piero Cappuccilli, Magda Olivero, Carlo Bergonzi. In genere, come  si  è  detto: tutti  i  grandi  cantanti”.
Non dimentichiamo che il concetto di “respirazione“, è importante anche nell’ambito dell’interpretazione musicale. Ogni pezzo di musica, che sia cantato o no, deve “sapere respirare“. Una interpretazione che non tiene conto della respirazione insita nella musica stessa, è un’interpretazione fallace, una interpretazione che certamente è fallimentare in partenza. Pensiamo all’apoteosi del concetto di interpretazione unito a quello di respirazione, che possiamo trovare nel canto gregoriano, dove gli esecutori non solo devono necessariamente trovare i punti di respirazione adeguati nel corso del brano interpretato, ma lo stesso è quasi sottratto ad alcuni parametri musicali per avvicinarsi alla naturalezza e mi verrebbe da dire “all’irregolarità” dellapulsazione naturale, che non è metronomica ma segue un ritmo dettato dall’incresparsi delle tensioni emotive. In un video su You Tube di qualche tempo fa erano state comparate alcune esecuzioni registrate un centinaio di anni fa con alcune versioni moderne. Un elemento che certamente risaltava era proprio quello di una maggiore libertà ritmica, una maggiore fluidità nell’interpretare il brano rispetto alla dittatura del metronomo che molti interpreti moderni subiscono. 

Insomma, anche una tragedia come la presente ci permette di riflettere sull’importanza della respirazione e di come essa sia al centro non solo dei nostri processi vitali, ma anche della nostra corretta ermeneutica dell’elemento musicale in chiave estetica e filosofica.

venerdì 20 marzo 2020

Liturgia al tempo del coronavirus

Tutti possiamo seguire i tanti dibattiti e le tante polemiche che si succedono in questi giorni, il cui unico tema di discussione, e con ragione, è la pandemia di coronavirus che stiamo vivendo. Non si parla d’altro, la gente non vuole parlare o sentire altro. Ripeto, non ci sorprende una cisa del genere, visto che questo evento segnerà anche la nostra vita nel futuro, come una guerra o una calamità naturale. Arrriverà un momento in cui dovremmo per forza fare i conti con questi eventi e cercare di capire se ci insegnano qualcosa. Uno dei temi è quello della partecipazione impedita alla liturgia, per evitare assembramenti di persone e favorire la diffusione della malattia. Pensando poi che lo spettro demografico di coloro che frequentano la chiesa ai nostri tempi tende verso l’età più matura.
La Messa è l’atto più grande della nostra fede. Nella Mediator Dei, Pio XII sanciva: “Il dovere fondamentale dell'uomo è certamente quello di orientare verso Dio se stesso e la propria vita. «A Lui, difatti, dobbiamo principalmente unirci, e indefettibile principio, al quale deve anche costantemente rivolgersi la nostra scelta come ad ultimo fine, che perdiamo peccando anche per negligenza e che dobbiamo riconquistare per la fede credendo in Lui» (San Tommaso, Summa Theol., 2.a 2.æ, q. 81, a. 1). Ora, l'uomo si volge ordinatamente a Dio quando ne riconosce la suprema maestà e il supremo magistero, quando accetta con sottomissione le verità divinamente rivelate, quando ne osserva religiosamente le leggi, quando fa convergere verso di Lui tutta la sua attività, quando per dirla in breve presta, mediante le virtù della religione, il debito culto all'unico e vero Dio. Questo è un dovere che obbliga prima di tutto gli uomini singolarmente, ma è anche un dovere collettivo di tutta la comunità umana ordinata con reciproci vincoli sociali, perché anch'essa dipende dalla somma autorità di Dio. Si noti, poi, che questo è un particolare dovere degli uomini, in quanto Dio li ha elevati all'ordine soprannaturale. Così se consideriamo Dio come autore dell'antica Legge, lo vediamo proclamare anche precetti rituali e determinare accuratamente le norme che il popolo deve osservare nel rendergli il legittimo culto. Stabilì, quindi, vari sacrifici e designò varie cerimonie con le quali dovevano compiersi; e determinò chiaramente ciò che si riferiva all'Arca dell'Alleanza, al Tempio ed ai giorni festivi; designò la tribù sacerdotale e il sommo sacerdote, indicò e descrisse le vesti da usarsi dai sacri ministri e quanto altro mai aveva relazione col culto divino (cfr. Levitico). Questo culto, del resto, non era altro che l'ombra (Heb. 10, 1) di quello che il Sommo Sacerdote del Nuovo Testamento avrebbe reso al Padre Celeste”. Insomma, la liturgia non è qualcosa di accessorio, ma un dovere preciso del cristiano. Certo, ci sono anche le esigenze di salvaguardare vite umane, non esporli a possibili pericoli. Ecco che trovare un equilibrio in questa situazione diviene estremamente difficile e penoso.
Mons. Giampaolo Crepaldi, in un documento recente, ha osservato: “Il bene comune è di natura morale e, come abbiamo detto sopra, questa crisi dovrebbe indurre alla riscoperta di questa dimensione, ma la morale non vive di vita propria, dato che è incapace di fondarsi ultimamente. Qui si pone il problema della relazione essenziale che la vita politica ha con la religione, quella che meglio garantisce anche la verità della vita politica. L’autorità politica indebolisce la lotta contro il male, come accade anche con l’epidemia in corso, quando equipara le Sante Messe alle iniziative ludiche, pensando che debbano essere sospese, magari anche prima di sospendere altre forme aggregative senz’altro meno importanti. Anche la Chiesa può sbagliare quando non fa valere, per lo stesso autentico e completo bene comune, l’esigenza pubblica delle Sante Messe e dell’apertura delle chiese. La Chiesa dà il suo contributo alla lotta contro l’epidemia nelle varie forme di assistenza, aiuto e solidarietà che essa sa realizzare, come ha sempre fatto in casi simili in passato. È il caso, però, di mantenere alta l’attenzione alla dimensione religiosa del suo apporto, affinché non sia considerata una semplice espressione della società civile. Per questo assume un valore particolare quanto affermato da Papa Francesco che ha pregato lo Spirito Santo di dare “ai pastori la capacità e il discernimento pastorale affinché provvedano misure che non lascino da solo il santo popolo fedele di Dio. Che il popolo di Dio si senta accompagnato dai pastori e dal conforto della Parola di Dio, dei sacramenti e della preghiera”, naturalmente con il buon senso e la prudenza che la situazione richiede“. Ecco, in queste osservazioni del prelato mi sembra ci siano spunti da tenere presenti, in quanto quello che ci accade oggi non è che uno specchio di un cammino su cui la Chiesa si è oramai incamminata da decenni, in cui io soprannaturale è stato a bella posta “naturalizzato”, rendendo possibile concepire la santa Messa come un’attività tra le altre. E non dimentichiamo che anche lo stile di tante celebrazioni dei tempi nostri ci richiama a questo desiderio di quotidianeità liturgica, che rende agli occhi di tanti la liturgia un incontro fra gli altri, senza quel carattere soprannaturale che dovrebbe esserne al cuore. 

Come vivere la liturgia al tempo del coronavirus? Deus non alligatur sacramentis, ci dice la tradizione teologica cattolica, Dio può agire ed agisce anche al di fuori di una regolare vita sacramentale. Noto che in questi tempi, specialmente sui social, c’è un continuo organizzare la recita del rosario, la via crucis, novene....insomma tutte quelle forme di preghiera che tanti nella Chiesa stessa hanno vituperato perché appartenenti ad un passato che molti vivono quasi con vergogna, come se non ci dovesse più appartenere.

martedì 17 marzo 2020

Letture: “L’Imperatore Giuliano l’Apostata”

Un libro pubblicato molti anni fa può essere un utile occasione di confronto fra diversi modi di approcciare la storiografia. Una figura interessante in questo senso è quella di Gaetano Negri (1838-1902), figura poliedrica di politico, combattente, filosofo e storico. Nella sua voce su treccani.it, Marco Soresina dice: “Tra le opere maggiori vi sono due ricostruzioni sotto il profilo storico, etico e poetico dell’opera della scrittrice inglese George Eliot (Mary Anne Evans), G. Eliot. La sua vita e i suoi romanzi (ibid. 1891), allora praticamente sconosciuta in Italia, e dell’imperatore del IV secolo Flavio Claudio Giuliano (L’imperatore Giuliano l’apostata. Studio storico, ibid. 1901, che ebbe anche una edizione inglese nel 1905), nelle quali l’analisi è inframmezzata da digressioni di ordine morale, da intuizioni letterarie, da forzature analitiche, imprecisioni e anacronismi condotti però con una prosa coinvolgente, di alta divulgazione, che piacque al pubblico. Il suo orizzonte filosofico era improntato a un disincantato agnosticismo, che si nutriva della positiva fiducia nelle scienze ma non rinnegava il fascino e l’esigenza di una metafisica, né la natura di sorgente di conoscenza e di etica del sentimento religioso. Da tali presupposti derivavano anche le oscillazioni di pensiero e le contraddizioni irrisolte presenti nelle sue opere. Negli scritti di filosofia (il principale: Meditazioni vagabonde. Saggi critici, ibid. 1897) fu soprattutto studioso dei problemi morali, che affrontò con sereno spirito razionalista, ma con procedere non sistematico“. Un figlio del diciannovesimo secolo, insomma, il cui testo sull’imperatore Giuliano (331-363) è certamente affascinante. Giuliano tentò nel quarto secolo un ritorno al paganesimo contro la marea montante del cristianesimo. Se lo leggiamo con gli occhi attuali, possiamo dire che tentativi in questo senso non sono assenti nella nostra società, anche se a mio avviso il pericolo maggiore non ci viene da un ritorno al paganesimo ma da una discesa nel nulla, e questo è esattamente quello che viviamo.
Nel testo L’Imperatore Giuliano l’Apostata, Negri ci offre nella prefazione alcune idee sul suo approccio storiografico: “Lo studio, la narrazione di un episodio religioso non dev'essere nè un'apologia nè un attacco; dev'essere un'imparziale, serena, diligente esposizione degli avvenimenti e delle cause che li hanno prodotti. Questo metodo di critica perfettamente oggettiva non deve offendere nessuna coscienza, per quanto delicata, poichè una religione, quale sia l'origine sua, viene pure a contatto con gli uomini, ed è quindi necessariamente perturbata, oscurata dall'elemento umano, e soggetta a tutte le vicissitudini che quell'elemento subisce col passar dei secoli“. Quindi, egli tenta un approccio il più oggettivo possibile, considerando che egli non parte, da quello che sappiamo, da posizioni confessionali. Dice ancora: “Generalmente la storia dei fatti religiosi si fossilizza o nell'ammirazione irragionevole di tutto, anche di ciò che non può esser ammirabile, perchè è il prodotto dell'azione disturbatrice che l'uomo vi ha esercitata, od in un'avversione non meno irragionevole anche di ciò che dev'essere rispettato, perchè è l'espressione genuina dell'irresistibile aspirazione dell'anima umana all'infinito“.
Nel testo l’autore ci da una idea del perché il tentativo di Giuliano, rispetto a quello di suoi predecessori, fosse in un certo senso più pericoloso: “Nessuno dei persecutori del Cristianesimo era mai entrato nel merito del Cristianesimo. Lo si perseguitava perchè lo si credeva pericoloso per la società e per lo Stato, ma nessuno s'incaricava di esaminarlo nelle sue basi filosofiche e storiche. Il lavoro critico di Celso era rimasto presso che isolato. Ora, qui si presentava un imperatore, il nipote di Costantino, il quale si dichiarava apostata del Cristianesimo e pretendeva di giustificare la propria apostasia con la dimostrazione dell'irragionevolezza e della mancanza di base storica di una religione che ormai pareva vittoriosa d'ogni resistenza. Nulla poteva riuscire più offensivo alla Chiesa, la quale s'era già avvezza a dominare sovrana assoluta, ed a cui, pertanto, doveva parere intollerabile ogni discussione sulla sua autorità. Il giavellotto di un Persiano la tolse, in breve, da ogni preoccupazione, ma non cancellò la memoria del paventato ed odioso tentativo, ed essa se ne vendicò condannando il nome di Giuliano all'obbrobrio e la sua storia ed i suoi libri ad un immeritato oblio“. A mio avviso, molto meglio il tentativo di Giuliano che quello di altri che non ne mettono in discussione le premesse teologiche e filosofiche. Pensiamoci bene, se il Cristianesimo è la Verità, non deve temere una sfida al suo sistema di pensiero che non può che essere vittoriosa per i djscepoli di Cristo.
Giuliano si appassionò allo studio dei Misteri: “Egli teneva ancora celate le sue convinzioni religiose, ma ciò non gli impediva di infervorarsi negli studi ed anche nella conoscenza dei Misteri, che costituivano il principale atto di culto di quel simbolismo politeista di cui Giuliano voleva fare la religione del mondo“. La lettura che Negri offre dell’evoluzione della Chiesa in quei secoli potrebbe essere certo contestata: “La Chiesa, negli anni precedenti la sua vittoria finale, si era profondamente trasformata per effetto della lenta elaborazione de' suoi elementi, avvenuta fra le intermittenti persecuzioni del secondo e del terzo secolo, ed aveva colmato l'abisso che la separava dal mondo. Nella morale, era discesa dalle pure altezze del Vangelo e del Cristianesimo primitivo e si era avvicinata allo stoicismo; nella filosofia, aveva costrutto un grande edificio teologico, adoperandovi i materiali del platonismo; nel culto, aveva plasmato le sue cerimonie su quelle dei Misteri. Infine, era riuscita ad organizzare un Cristianesimo pratico ed accettabile dal mondo“. Quanto questo Cristianesimo fosse “pratico ed accettabile al mondo” sarebbe ampiamente da dimostrare, ma vero è che la penetrazione del messaggio cristiano, come ci si poteva aspettare, fu capillare. Ma in Negri sentiamo echi di un certo pensiero che poi da noi dominerà selvaggio negli ultimi decenni: “La Chiesa accettò le divisioni dell'amministrazione romana, le prese le sue idee di gerarchia, e sentì il desiderio di avere un gran numero di funzionari. La preoccupazione delle cure mondane le fece dimenticare quell'amore della debolezza e della povertà che era stato in origine la sua forza d'attrazione“.
Una osservazione di Negri, per concludere, mi sembra particolarmente interessante e da approfondire: “Se non che, io qui vorrei fare un'osservazione che risulterà meglio chiarita nel progresso di questo studio, ed è che il Cristianesimo ha vinto il Neoplatonismo non solo per effetto delle sue virtù, ma anche per quello de' suoi vizi. Infatti, il Cristianesimo, fin dai primi suoi tempi, si era costituito disciplinarmente e si era creata un'organizzazione gerarchica. Fu l'esistenza di questa gerarchia che persuase Costantino a farsi un'alleata della Chiesa cristiana, la quale da quell'alleanza ebbe il suo riconoscimento, diventando uno degli elementi costitutivi del complicato e putrido organismo dell'impero romano-bizantino. Ma il Cristianesimo doveva necessariamente pagare la sua vittoria coll'infettarsi di tutti i mali di cui era afflitta la potenza mondana a cui si abbracciava, e noi già vedemmo come l'ideale della moralità cristiana andasse a rifugiarsi nei conventi e nei cenobî degli asceti. Il Neoplatonismo, il quale non aveva mai saputo organizzarsi, ed era rimasto allo stato di un'opinione, di un'aspirazione, di una dottrina personale, non offriva all'Impero nessuna forza, nessuna nuova risorsa, e l'Impero lo sprezzò“. Insomma, la riflessione del confine fra purezza evangelica e potere mondano, una riflessione che non era solo attuale ai tempi di Giuliano o ai tempi di Gaetano Negri, ma lo è sempre di più anche nei tempi nostri.


domenica 15 marzo 2020

Se ora avete più tempo a casa, ascoltate il canto gregoriano

Voglio dare un suggerimento a credenti e non credenti: ora che il coronavirus ci costringe alla quarantena e abbiamo più tempo in casa, ascoltate il canto gregoriano. Anche se non credete, vi farà bene, perché il canto gregoriano non è semplicemente musica, ma è una via spirituale a Dio. Io spero che i non credenti la percorrano tutta ma già iniziare sarà importante.
Un articolo di Pino Pignatta su fondazionegraziottin.org dice a proposito: “Lasciatela vagare nel vostro intimo come un’onda che s’infrange, muore e ritorna. Come una risacca musicale che vi accompagna senza sosta anche a occhi chiusi. Lasciate che sia un “mantra” capace di riempire il silenzio della mente. È una musica che non è triste né allegra, ma al tempo stesso può essere triste o allegra perché è “modale”, cioè prodotta da una concatenazione precisa di toni e semitoni (i più famosi sono il “maggiore” e il “minore”, ma ne esistono moltissimi altri) che conferiscono all’atmosfera generale un tono cupo, gioioso o malinconico. Non è una musica che ha in sé i germi di una guarigione, che nasce per essere lenitiva, come una solare sinfonia mozartiana, o una zampillante melodia di Schubert. Ma può essere benissimo tutto questo, un balsamo, un sollievo, perché è un colloquio intimo con Dio, una confessione a tu per tu, un trovarsi faccia a faccia. È una preghiera articolata in suoni. Un’orazione da cantare non in modo formale, ma con devozione: come diceva san Paolo, «con il cuore». Sotto l’apparente “fissità” della monodia (una musica a una o più voci nella quale abbiamo una sola melodia), in realtà si muove un universo spirituale interiore che ha qualcosa di magmatico. E che per la particolare articolazione delle voci, per il loro timbro, ci interroga e intanto ci lascia un oceano di pace interiore. Ecco la nostra nuova “provocazione”: il Canto gregoriano. Si fa per dire nuova, perché ci scaraventa, letteralmente, indietro di oltre 1.500 anni. Dopo la “trasgressione “ di Alban Berg, che con il suo violino per un “Angelo” ci ha spinto verso le asprezze dodecafoniche dell’atonalità, la scorsa puntata abbiamo fatto una pausa ristoratrice alle fonti cristalline della musica di Brahms, custode severo della forma, baluardo contro ogni dissoluzione dell’arte e argine a quegli esploratori di terre musicali che il gigante di Amburgo già vedeva muoversi intorno a sé, non senza qualche brivido “armonico” lungo la schiena. Ora immaginate di fare un salto ritroso nel tempo. Di essere immersi in un silenzio dove non ci sono ancora note codificate, un’epoca storica nella quale nessuna delle musiche – classiche o leggere, colte o popolari – alle quali siete abituati, fatte di strumenti che accompagnano le voci o di più musicisti che suonano insieme, era ancora stata “inventata”. Un’epoca senza sinfonie, senza orchestre, senza quartetti o quintetti, senza violini o clarinetti, senza canzoni. E ora provate a immaginare d’essere ospiti in un monastero di clausura intorno al IX secolo, cioè verso l’800 dopo Cristo. Bene: quella che vi proponiamo questa settimana nel documentario tratto da YouTube – un affascinante viaggio tra i monaci dell’Abbazia francese di Solesmes – è la sola musica, diciamo “ufficiale”, che avreste sentito vivendo allora. E il monastero, l’unico luogo in cui era possibile ascoltarla. Se pensate che la musica (intesa come la conosciamo noi da quando siamo nati) sia sempre esistita, vi domanderete perché. Semplice: dopo la caduta dell’impero romano, durante il 400 dopo Cristo, a poco a poco la Chiesa estende la propria influenza in tutta Europa; e per molto tempo – almeno cinque secoli, sino a quando compaiono in Francia i trovatori e i trovieri che diffondono i canti profani – la musica è soprattutto religiosa: è utilizzata esclusivamente per scopi liturgici, spirituali”. In effetti, la musica è nata come musica sacra e poi si è profanizzata. Ma all’inizio era un modo per parlare a Dio.
Enzo Crotti su musica-spirito.it ci parla del potere terapeutico del canto gregoriano: “Il canto accompagna da sempre la vita dell’uomo ed è utilizzato per molti importanti eventi della sua vita sociale, tra cui matrimoni e cerimonie religiose. Il Dott. Tomatis ha a lungo studiato l’importanza dell’ascolto e le funzioni dell’orecchio umano, evidenziando l’importanza terapeutica della musica. Tramite una delle sue esperienze, possiamo capire la grande utilità del canto per una comunità religiosa. Il canto gregoriano è un canto religioso tradizionalmente eseguito dalle comunità di monaci benedettini, ma dopo il Secondo Concilio Vaticano molti vescovi e abati sminuirono la sua importanza a favore di un canto più leggero e pop. In particolare Tomatis fu contattato da un monastero in cui l’abate aveva deciso che, le numerose ore dedicate alla pratica del canto gregoriano da parte dei monaci non erano necessarie. In breve tempo i monaci cominciarono a manifestare stanchezza e depressione a causa del rigoroso programma di lavoro e preghiera. Furono contattati medici che però non trovarono una soluzione, correlando i problemi alla dieta vegetariana dei monaci. Anche dopo aver variato la dieta i risultati non arrivarono, fino a quando non fu chiamato il Dott. Tomatis. Appena seppe che era stata interrotta la pratica del canto gregoriano, capì che questo poteva essere la causa del problema.  Senza il suo effetto terapeutico e rigenerativo, i monaci non avevano l’energia e la forza necessarie per sostenere la vita rigorosa che la comunità religiosa richiedeva. Una volta ristabilito il canto quotidiano, i problemi cessarono e il monastero tornò alla regolarità”. Vero o non vero, si può fare esperienza del fatto che il canto gregoriano ha veramente un potere rilassante, a parte il suo fondamentale scopo di essere preghiera.
Tempo fa ero in una comunità monastica e ho recitato un’ora liturgica con loro. Ad un certo punto hanno cantato l’inno in canto gregoriano, ed era così bello e spirituale che non potevo fare a meno di chiedermi: perché abbiamo perso tutto questo? Chi lo ha chiesto?

Ecco, ora che avete più tempo, andate su You Tube e date fondo alle centinaia di migliaia di video che vi troverete sul canto gregoriano. Non ve ne pentirete.

giovedì 12 marzo 2020

Quello che non abbiamo più

Per chi vive in Italia, in questi giorni di marzo, sono giorni surreali. L’epidemia di coronavirus ci costringe a starcene chiusi dentro casa, con misure sempre più restrittive giustificate dal legittimo desiderio di contenere un contagio che in certi momenti sembra inarrestabile. Proprio questa privazione di libertà nel muoversi ci fa ripensare a tutte le cose che normalmente siamo in grado di fare e che ora non possiamo fare, ci fa pensare a quello che non abbiamo più. Certo, come individui questo lo proviamo anche grazie ad una malattia, ma questo che abbiamo oggi è oramai un sentimento collettivo, un’ansia sociale, una emozione condivisa.
A me personalmente manca di poter andare al supermercato, aggirarmi tra i banconi e poter fare le mie scelte mischiandomi con gli altri clienti. Mi manca di poter guardare le vetrine dei negozi, mi manca di poter salutare qualcuno che incontro per la strada, mi manca di poter fermarmi a chiacchierare con qualche negoziante, che magari mi conosce da bambino. Mi manca di poter prendere un autobus affollato, mi manca di poter camminare senza senso per la mia Roma, mi manca di poter osservare in un angolo la varia umanità che mi passa di fronte e non aver paura di loro. Mi manca il rigoglio della frutta fresca nei banchi dei negozi, i vari tipi di pizza dai fornai, i troppi libri che vorrei ma che non posso leggere nelle librerie. Mi manca di poter andare in ospedale se non mi sento bene, di poter mischiarmi ad altre persone che come me vanno lì con tanta speranza sperando di essere curate e guarite. Mi manca di poter entrare nelle chiese, di avere i miei dialoghi segreti che non vengono disturbati dai turisti che entrano ed escono, ma anche di poter osservare la storia della nostra fede così gloriosa e splendente. Mi mancano le basiliche, richiese grandi, ma anche quelle piccole, dove mi sento più riparato, dove mi rifugio quando voglio che il mio rapporto con Gesù sia più discreto, senza troppi occhi che ci osservano.
Mi mancano le liturgie curate, con la consapevolezza che quello che si celebra è la cosa più preziosa che abbiamo, mi mancano i canti adatti, le parole giuste, i testi stabiliti; ma questa, purtroppo, non è una mancanza recente.
Mi mancano le campane, i fiori sugli altari, le edicole mariane lungo le strade, davanti cui fermarmi anche per pochi secondi e ricordarmi alla Madonna insieme alla mia famiglia e a tutti quelli che mi sento di ricordare. 

Mi mancano i profumi della vita vera che si svolge al di fuori del mio palazzo, l’umanità che soffre e gioisce, che parla di cose inessenziali come se fossero essenziali, e questa a volte è la nostra salvezza. Mi mancano i pranzi con gli amici, le chiacchiere su questo e quello, i ristoranti che conoscono e che mi sanno servire. Mi mancano le targhe commemorative nelle strade che leggo e rileggo, perché in esse c’è anche la mia memoria in quanto parte di una comunità.  Mi manca di poter viaggiare, di vedere altri luoghi e vivere altre vite. Chissà, forse è questo il lato positivo di questo altrimenti maledetto virus, quello di farci sentire fortunati per quello che abbiamo e che speriamo di riavere presto, quando tutto questo sarà finito. Nel frattempo alcuni non ce l’avranno fatta, alcuni saranno stati idioti mettendo in pericolo altre persone per la loro idiozia, altri avranno perso tanto, forse troppo. Ma la vita ricomincerà, ci sarà un momento in cui tutto questo sarà alle spalle e la vita sembrerà la solita, quella vita per cui ci sembrano scontate tutte quelle cose che adesso ci appaiono così preziose.

lunedì 9 marzo 2020

Un canto per il nostro tempo: Parce Domine

Immagino che tutti noi che stiamo vivendo questo tempo in preda all’epidemia di coronavirus, ricorderemo questi giorni e le ansie che li accompagnano. Questa memoria non ci abbandonerà mai, perché per molti di noi è la prima volta che ci troviamo in una situazione del genere. Ci sono dei canti che possono rispondere a quanto stiamo vivendo? Certamente ce ne sono molti, ma uno che mi viene in mente è Parce Domine, un’antifona gregoriana a cui spesso vengono accompagnati alcuni versi in forma metrica. La melodia austera del canto gregoriano ci accompagna nel nostro esprimere la nostra supplica a Dio, l’invocazione di ascoltare il suo popolo. Dice infatti: “Perdona, Signore, perdona il Tuo popolo, non rimanere in eterno adirato con noi”. Questa invocazione ci fa capire qual è il tono che questo canto dà alla nostra preghiera. Nella prima strofa viene detto: “Plachiamo l'ira vendicatrice, piangiamo di fronte al Giudice; chiamiamolo con voce supplicante prostrati diciamo tutti insieme: Perdona, Signore...”. Queste parole sembrano lontane dal cattolicesimo buonista a cui siamo stati abituati negli ultimi decenni. Certamente parlare di “ira vendicatrice“ può sembrarci duro, ma in realtà l’enfasi è tutta sui nostri peccati, è l’uomo che immagina Dio essere adirato con noi per la nostra continua infedeltà. Quindi il testo parla certamente di Dio ma per parlare di noi. Nel libro di Nahum (1, 1-8) si dice: “Un Dio geloso e vendicatore è il Signore, vendicatore è il Signore, pieno di sdegno.  Il Signore si vendica degli avversari  e serba rancore verso i nemici.  Il Signore è lento all'ira, ma grande in potenza e nulla lascia impunito. Nell'uragano e nella tempesta è il suo cammino e le nubi sono la polvere dei suoi passi. Minaccia il mare e il mare si secca, prosciuga tutti i ruscelli. Basàn e il Carmelo inaridiscono, anche il fiore del Libano languisce. Davanti a lui tremano i monti, omdeggiano i colli; si leva la terra davanti a lui, il mondo e tutti i suoi abitanti. Davanti al suo sdegno chi può resistere e affrontare il furore della sua ira? La sua collera si spande come il fuoco e alla sua presenza le rupi si spezzano. Buono è il Signore, un asilo sicuro nel giorno dell'angoscia: conosce quelli che confidano in lui quando l'inondazione avanza. Stermina chi insorge contro di lui e i suoi nemici insegue nelle tenebre”. Giustamente un’immagine molto diversa rispetto quella cui siamo abituati. E pure non c’è contraddizione fra il Dio misericordioso e il Dio giusto. Se capissimo questo avremmo capito veramente tantissimo.
Nella seconda strofa di Parce Domine viene detto: “Con le nostre colpe abbiamo offeso la Tua clemenza. Tu che perdoni, effondi su di noi la Tua indulgenza”. Dio è lì per perdonarci, anche se le nostre colpe hanno tentato la sua pazienza. Certamente siamo fortunati nel sapere che la misericordia di Dio è infinita proprio perché infinita è anche la sua giustizia. Ma dobbiamo cercare di capire nell’evolversi della nostra storia, in cosa dobbiamo emendarci per non attirare ancora il duro castigo di Dio.
Nella terza strofa si dice: “Concedici un tempo propizio. Dona di lavare con le lacrime il nostro cuore immolato, perché a Tua carità è sempre viva”. E il tempo propizio che viviamo è proprio quello della Quaresima, una Quaresima che quest’anno è così strana per via dell’epidemia di coronavirus, che ci costringe a rinunciare anche alle Messe. Insomma, quest’anno oltre alle privazioni del normale digiuno, abbiamo una privazione anche di senso diverso. Come detto, negli anni a venire, ripenseremo tutto quello che sta accadendo in questi giorni e forse saremo in grado di dare un senso molto più profondo a questi avvenimenti.
Nella quarta strofa si dice: “Ascolta, o buon Creatore, le nostre suppliche e i pianti che si effondono in questo sacro quaresimale digiuno”. E proprio di suppliche e pianti dobbiamo parlare, di angosce e ansie, di paura per il nostro futuro. Ecco, non c’è che la supplica e l’invocazione per cercare di attirare l’attenzione di Dio sulla nostra presente miseria.
Nell’ultima strofa viene detto: “Tu che leggi i cuori sai quanto è debole la nostra forza, a noi che ci rivolgiamo a Te mostra la Tua misericordia”. Ecco, è molto bella questa strofa, perché afferma come Dio che legge i cuori sa quanto è debole la nostra forza. Soltanto riconoscendo che viviamo nel peccato, riconoscendo la nostra fragilità, possiamo pensare di ottenere qualcosa. L’orgoglio, l’arroganza, non ci aiuteranno nelle presenti difficoltà.
La bella melodia nel primo modo, semplice ma solenne, sembra proprio reiterare questa invocazione ripetendosi quasi dalla prima alla seconda semifrase. Una frase ascensionale sulle parole “ne in aeternum” sembra quasi adombrare questa necessità che ha l’uomo per la misericordia del suo Creatore.
Sul sito dell’unione catechisti (unionecatechisti.it) trovo questa bella meditazione che prende spunto dalla nostra antifona: “La Sacra Scrittura è piena di fatti comprovanti che Iddio gradisce i piccoli mezzi di penitenza e sovente perdona molti peccati per modesti atti di mortificazione o di preghiera, come avvenne per esempio agli Ebrei nel deserto infestati dai serpenti velenosi e salvati al solo guardare il serpente di bronzo eretto a forma di Croce da Mosè per ordine di Dio stesso in mezzo all'accampamento. Era quello un simbolo del Divin Crocifisso. Sappiamo che basta una parola di vivo pentimento uscita da un cuore amante e penitente per ottenere, un generoso perdono e per sentirsi ripetere come alla Maddalena: « Molto ti è stato perdonato perché molto hai amato ». Ora non ci stupiremo se, ai giorni nostri, così pieni di serie preoccupazioni, ci si invita alla recita della Divozione a Gesù Crocifisso, ricordandoci una solenne promessa che trascriviamo dagli scritti di Fra Leopoldo Musso: « La divozione a Gesù Crocifisso fermerà i flagelli ». I peccati del mondo sono vero richiamo di nuovi castighi che la bontà misericordiosa di Dio vorrebbe risparmiarci se noi ci convenissimo « ad vera penitenza ». Preghiamo quindi il Santo Crocifisso, nostro albero di vita, e supplichiamolo di fermare la giusta collera. Parce Domine - ripetiamo ogni giorno recitando la nostra cara Divozione - noi Ti adoriamo Crocifisso e Ti benediciamo, promettendoTi il nostro amore, ma Tu risparmiaci i giusti colpi della Tua divina vendetta. Parce Domine - diciamo con santa insistenza - le Tue Piaghe sacratissime sono il nostro rifugio, la nostra speranza, l'unica sorgente delle Tue misericordie. Parce Domine … noi ci uniamo a Maria SS. Tua Madre tenerissima, a tutti gli Angeli e ai Beati del Cielo per cantarti l'inno della nostra adorazione e per dirTi che siamo ritornati all'ovile col desiderio di non allontanarci mai più. Ascolta e accetta le nostre lacrime! Parce Domine … per la Piaga della Tua mano destra assisti la Tua Chiesa e il Tuo Vicario, affinché la loro voce sia ascoltata dagli uomini di buona volontà e sia fatta strada alla giustizia e alla carità. Fa, o Signore, che tutti i Tuoi figli camminino nella via dei Tuoi santi precetti. Parce Domine … per quel sangue che uscì in tanta copia dalla Tua mano sinistra siano riscattati tutti i poveri peccatori e i moribondi, specialmente quelli più lontani da Te che rifiutano la Tua grazia. Guarda, o Gesù, sono milioni di anime che, in molte lingue, ripetono con noi questa preghiera e fra essi vi sono dei giovani a Te tanto cari … vi sono dei sofferenti … dei penitenti volontari … Parce Domine … la ferita del Tuo piede destro ti sia dolce richiamo alla Tua infinita bontà e per tale sorgente di carità benedici il Tuo Clero e i Tuoi Religiosi, affinché il giardino della Tua Chiesa sia sempre più arricchito di numerosi fiori di santità. Parce Domine … siamo ancora noi, che fissando il nostro sguardo alla Piaga del Tuo piede sinistro ti scongiuriamo di avere clemenza per quei che ci precedettero all'eternità « col segno della Fede » e che in vita furono più devoti delle Tue sacratissime Piaghe. Abbi pietà in modo particolare di coloro che morirono sui campi di battaglia. Parce Domine … il Tuo cuore, oceano di ogni misericordia, è ancora la sola fiducia nostra e dei nostri cari e quindi in Esso chiudiamo tutte le persone che si raccomandano alle nostre preghiere”.

Facciamo nostra, con fiducia, questa accorata preghiera.

domenica 8 marzo 2020

Teniamoci cari gli anziani

In questi giorni in cui combattiamo con l’epidemia di coronavirus, si sente spesso dire che i decessi procurati da questo virus riguardano per la stragrande maggioranza gli anziani. A volte, non sempre, questo viene detto con una sorta di sollievo, come dire “tocca a loro che tanto sono vicini comunque al commiato, risparmia le persone più giovani“. Ora, capisco che alcuni sotto pressione non riflettano bene sulle conseguenze di quello che dicono, ma io credo che questa mentalità sia veramente scorretta.
Dobbiamo lottare anche per fare in modo che gli anziani possano scampare questo pericolo ed essere tristi per i loro decessi come se riguardasse un giovane. Gli anziani, sono la nostra memoria. Gli anziani sono il collegamento fra noi e la generazione precedente, sono l’anello di una catena che rischia di assottigliarsi sempre più. Essi sono da tenere in grandissima considerazione, perché una società solo giovane rischia tutte le derive di quella malattia straordinaria che chiamiamo “gioventù”.
In una visita ad una casa di anziani Benedetto XVI diceva nel 2012: “Nella Bibbia, la longevità è considerata una benedizione di Dio; oggi questa benedizione si è diffusa e deve essere vista come un dono da apprezzare e valorizzare. Eppure spesso la società, dominata dalla logica dell'efficienza e del profitto, non lo accoglie come tale; anzi, spesso lo respinge, considerando gli anziani come non produttivi, inutili. Tante volte si sente la sofferenza di chi è emarginato, vive lontano dalla propria casa o è nella solitudine. Penso che si dovrebbe operare con maggiore impegno, iniziando dalle famiglie e dalle istituzioni pubbliche, per fare in modo che gli anziani possano rimanere nelle proprie case. La sapienza di vita di cui siamo portatori è una grande ricchezza. La qualità di una società, vorrei dire di una civiltà, si giudica anche da come gli anziani sono trattati e dal posto loro riservato nel vivere comune. Chi fa spazio agli anziani fa spazio alla vita! Chi accoglie gli anziani accoglie la vita!”. Penso che queste belle parole di papa Benedetto XVI possano bastare per comprendere come un cattolico deve considerare l’anziano, come portatore di un grande arricchimento per la società tutta.
Pensiamo per esempio all’importanza dei nonni. Io purtroppo non ho più i miei nonni già da qualche anno, ma la loro memoria, per quelli che ho potuto conoscere, rimane sempre nel mio cuore. La loro dedizione a me e alla nostra famiglia è qualcosa che rimane dentro come un insegnamento da portare avanti per le generazioni future. Io posso osservare anche i ragazzi un poco difficili, con problemi, per cui spesso l’unico rapporto solido che riescono a costruire è con i propri nonni. Quando i nonni se ne vanno, non se ne vanno solo le nostre memorie, ma anche le memorie dei nostri genitori, sembra veramente una doppia perdita.
Papa Francesco, durante un’udienza generale nel 2015 affermava: “Noi possiamo ringraziare il Signore per i benefici ricevuti, e riempire il vuoto dell’ingratitudine che lo circonda. Possiamo intercedere per le attese delle nuove generazioni e dare dignità alla memoria e ai sacrifici di quelle passate. Noi possiamo ricordare ai giovani ambiziosi che una vita senza amore è una vita arida. Possiamo dire ai giovani paurosi che l’angoscia del futuro può essere vinta. Possiamo insegnare ai giovani troppo innamorati di sé stessi che c’è più gioia nel dare che nel ricevere. I nonni e le nonne formano la “corale” permanente di un grande santuario spirituale, dove la preghiera di supplica e il canto di lode sostengono la comunità che lavora e lotta nel campo della vita. La preghiera, infine, purifica incessantemente il cuore. La lode e la supplica a Dio prevengono l’indurimento del cuore nel risentimento e nell’egoismo. Com’è brutto il cinismo di un anziano che ha perso il senso della sua testimonianza, disprezza i giovani e non comunica una sapienza di vita! Invece com’è bello l’incoraggiamento che l’anziano riesce a trasmettere al giovane in cerca del senso della fede e della vita! E’ veramente la missione dei nonni, la vocazione degli anziani. Le parole dei nonni hanno qualcosa di speciale, per i giovani. E loro lo sanno. Le parole che la mia nonna mi consegnò per iscritto il giorno della mia ordinazione sacerdotale, le porto ancora con me, sempre nel breviario e le leggo spesso e mi fa bene. Come vorrei una Chiesa che sfida la cultura dello scarto con la gioia traboccante di un nuovo abbraccio tra i giovani e gli anziani! E questo è quello che oggi chiedo al Signore, questo abbraccio!”. Spesso sentiamo di anziani maltrattati, trattati come scarti, ma questo fa parte di una società che oramai coltiva una cultura dell’inumanità.

Ecco, quando sento parlare dei decessi per coronavirus e si sente dire che “per fortuna riguardano solo le fasce delle persone anziane“, mi fa un po’ male, perché se Dio vuole un giorno anziano lo sarò anche io, e veramente non vorrei essere trattato come un qualcosa di cui si può tutto sommato fare a meno. Certamente, ho detto in precedenza, capisco che la pressione di questi giorni possa far dire cose che sembrano consolatorie mai realtà sono soltanto terribili. Ho sentito altre persone fare riferimento a questo fatto, al fatto di sentirsi sollevati perché i decessi riguardano soltanto gli anziani e non le persone nelle fasce più giovani. Ma in questa lotta contro questo virus maledetto, siamo tutti insieme, se perdiamo i giovani perdiamo la forza e la speranza per il futuro, se perdiamo gli anziani stiamo perdendo la memoria di quello che siamo, ricchezze che vengono dall’esperienza, la saggezza che viene dall’aver vissuto già tanto. Noi non possiamo permetterci di perdere nulla di questo in modo così traumatico e drammatico. La natura ha i suoi ritmi che un morbo così improvviso sta sconvolgendo. Spero questo coronavirus sarà presto un brutto ricordo e mi auguro di poter vedere nel parco giochi vicino alla mia abitazione tante persone anziane che giocano e raccontano storie ai loro nipoti.

sabato 7 marzo 2020

Polifonia e canto dell’assemblea

Quando si pongono delle questioni come fossero contrapposizioni, si rischia di non riuscire mai a trovare una soluzione. Questo è certamente quello che è accaduto, devo dire specialmente da parte di molti liturgisti, quando si è voluto mettere il repertorio polifonico tradizionale della Chiesa cattolica contro il canto dell’assemblea. Cioè, veniva (e viene) detto, che le grandi composizioni polifoniche del passato ma anche del presente, così come il canto gregoriano (che polifonico non è) impedirebbero la partecipazione dell’assemblea. Tutto questo viene invocato “in nome del Concilio”. 
Eppure lo stesso Concilio, nella costituzione Sacrosanctum Concilium, dice qualcosa di molto diverso: “La tradizione musicale della Chiesa costituisce un patrimonio d'inestimabile valore, che eccelle tra le altre espressioni dell'arte, specialmente per il fatto che il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne. Il canto sacro è stato lodato sia dalla sacra Scrittura, sia dai Padri, sia dai romani Pontefici; costoro recentemente, a cominciare da S. Pio X, hanno sottolineato con insistenza il compito ministeriale della musica sacra nel culto divino. Perciò la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all'azione liturgica, sia dando alla preghiera un'espressione più soave e favorendo l'unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri. La Chiesa poi approva e ammette nel culto divino tutte le forme della vera arte, purché dotate delle qualità necessarie. Perciò il sacro Concilio, conservando le norme e le prescrizioni della disciplina e della tradizione ecclesiastica e considerando il fine della musica sacra, che è la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli, stabilisce quanto segue. L'azione liturgica riveste una forma più nobile quando i divini uffici sono celebrati solennemente con il canto, con i sacri ministri e la partecipazione attiva del popolo. Quanto all'uso della lingua, si osservi l'art. 36; per la messa l'art. 54; per i sacramenti l'art. 63; per l'ufficio divino l'art. 101. Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le « scholae cantorum » in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d'anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l'assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30. Si curi molto la formazione e la pratica musicale nei seminari, nei noviziati dei religiosi e delle religiose e negli studentati, come pure negli altri istituti e scuole cattoliche. Per raggiungere questa formazione si abbia cura di preparare i maestri destinati all'insegnamento della musica sacra. Si raccomanda, inoltre, dove è possibile, l'erezione di istituti superiori di musica sacra. Ai musicisti, ai cantori e in primo luogo ai fanciulli si dia anche una vera formazione liturgica. La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell'azione liturgica, a norma dell'art. 30”. Sarò io, ma me sembra che questi documenti dicano tutt’altro. A proposito del canto gregoriano viene anche detto: “Si conduca a termine l'edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un'edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di S. Pio X. Conviene inoltre che si prepari un'edizione che contenga melodie più semplici, ad uso delle chiese più piccole”. Cioè si chiede di curare ancora di più i libri liturgici che riguardano il canto gregoriano. 

Ovviamente, quando si ha un approccio ideologico, è molto difficile ragionare su qualunque cosa. Per alcuni liturgisti, sembra che il vero scopo non sia la partecipazione del popolo, ma eliminare tutta quella grande tradizione musicale e artistica della Chiesa cattolica, per dei motivi che è veramente difficile comprendere (o forse no) da fastidio. In realtà, il loro è un concetto sbagliato di partecipazione. La partecipazione, come ci insegna la buona pedagogia della liturgia, è anche interna. Cioè, anche ascoltare è partecipare, come chiunque dotato di ragione può comprendere. L’ascolto di un brano liturgico appropriato, anche se eseguito dal coro, ci aiuta ad elevarci al mistero divino. In fondo, quando le persone vanno a un concerto, anche se non stanno suonando quelle composizioni, partecipano con il loro ascolto. Quindi, l’accusa che viene spesso lanciata ai cori, che la liturgia “non è un concerto”, è veramente fuori luogo. Fuori luogo, perché anche in un concerto si partecipa, ognuno a modo suo. Ma, naturalmente, come detto in precedenza, quando c’è un approccio ideologico non si può ragionare. In realtà, in alcuni casi è anche possibile unire la partecipazione dell’assemblea con il canto del coro. Penso per esempio all’esperienza delle messe alternate, quando ci sono delle messe gregoriane in cui si alterna il canto del popolo e la polifonia. Ma anche in quel caso c’è un problema per alcuni liturgisti, perché sono in latino, l’esecrabile latino. Allora, immaginiamo un direttore di coro veramente di buona volontà, che cerca di accontentare l’incontentabile parroco. Allora eseguirà una messa in italiano dove ad alcune parti polifoniche si alterna l’assemblea; ma anche in quel caso non va bene! Perché “il coro non deve esibirsi, deve solo cantare con l’assemblea“ (cioè rinnegare se stesso). Insomma, non ne va mai bene una. E non di rado capita che questi sacerdoti sono poi quelli che infarciscono la liturgia di discorsi di tutti tipi e di tutte le fogge. Il coro non si deve esibire, ma per loro si può fare una ben consolidata eccezione! Insomma, qui non si tratta di essere a favore o contro il Concilio, si tratta di essere a favore o contro delle persone che agiscono solo guidate da una malsana ideologia.

Le prove di canto prima della Messa

A volte non è semplice far partecipare le persone che attendono la Messa alle parti che a loro competono. Perché è importante ripetere, che non è necessario che il popolo canti tutto, questo non si trova in nessun documento, non è utile, pratico, non è probabilmente anche appropriato. I documenti del Concilio dicono chiaramente che ognuno deve partecipare suo modo, non tutti devono fare tutto, il partecipazionismo non è consono alla natura della liturgia cattolica.
Qual è il modo per far partecipare le persone al canto? Uno dei più pratici è fare una prova di canto con le persone prima della Messa. Ora, questo metodo ha certamente delle controindicazioni. E, la prima che viene alla mente è certamente riferita al fatto che molto spesso le persone arrivano a Messa non un minuto prima dell’inizio, ma 10 minuti dopo. Quindi, per alcuni potrebbe essere non pratico. Ma, se questa diviene una consuetudine, potrebbe forse cambiare le abitudini di qualcuno. Anche perché, lo dico ancora una volta, il cantare a Messa non è un obbligo, se qualcuno proprio non si sente di cantare lo si lasci in pace. Non bisogna far divenire l’esigenza di cantare un qualcosa che deve costringere persone che non sono educate a cantare in nessun contesto, quindi trovano difficile cambiare il proprio atteggiamento per un’ora a settimana. Poi, c’è da dire che il canto dei fedeli deve riguardare soltanto alcune parti del programma musicale della liturgia, deve esserci spazio per il coro, il solista in alcune parti, l’organo. Insomma, se non si pretende l’impossibile, riuscire a far partecipare le persone nei momenti allora appropriati è possibile, sempre limitatamente a coloro che vogliono cantare.
Quello che io vedo, e che spesso queste prove vengono fatte in modo sbagliato. Per alcuni, la prova significa far cantare al coro alcuni canti ma senza nessuna interazione con l’assemblea. L’assemblea semplicemente ascolta e certamente non si unirà mai al canto se non viene specificamente invitata. Io credo che la cosa più importante in questo caso, è creare un “rapporto“ con coloro che siedono sui banchi. Ho visto io stesso, che quando ci si rivolge direttamente a loro facendo capire che siamo veramente interessati alla loro partecipazione, sempre con educazione e gusto, qualcuno in più si fa coraggio e unisce la propria voce a quella del coro. Se non li si interpella direttamente, non ci sono santi, loro spontaneamente non si uniranno al canto. Specialmente nel nostro paese, le persone non sono educate a cantare in coro, sembra strano dirlo, ma certamente la nostra tradizione di cantare in coro e molto meno sviluppata rispetto al canto solistico. Nei paesi come l’America, Inghilterra, i paesi nordici, certamente c’è una tradizione corale molto più sviluppata. Quindi, è meno difficile coinvolgere le persone nel canto. Quindi, quando si fanno le prove prima della Messa, bisogna relazionarsi prima di tutto ai fedeli che sono presenti, bisogna fargli capire che quei 5 o 10 minuti sono dedicati proprio a loro per cercare di coinvolgerli nelle parti della Messa a loro appropriate.
Poi, come ho detto in precedenza, si deve essere realisti. Se si pensa che l’intero programma musicale possa essere sostenuto dal canto dell’assemblea, sì è veramente fuori dal mondo. Ripetendo gli stessi canti ogni domenica, si appiattisce la ricchezza delle liturgie particolari, si riduce tutto ad una vaga e astratta liturgia, che non serve certamente quell’assemblea che si crede di servire. Detto questo, bisogna ribadire che l’assemblea deve partecipare ad alcuni ritornelli, acclamazioni, risposte; non deve fare tutto. Con la scusa di coinvolgere l’assemblea, ho visto chiese dove gli stessi canti vengono ripetuti non da una Messa all’altra, ma addirittura nei decenni. Gli stessi identici canti cantati tutte le domeniche per 20 o 30 anni (parlo di questo perché posso testimoniarlo personalmente avendolo visto in una importante basilica romana). Non parlo naturalmente di quei canti che per la loro natura hanno una veste musicale più o meno univoca, prendiamo per esempio il padre nostro, solitamente offerto nella versione di tipo “gregoriana“. In questo caso è comprensibile. Ma ci sono chiese in cui una sola melodia per il salmo responsoriale viene praticamente adattata a tutti i salmi per tutto l’anno liturgico. Questo è un grave errore.

Insomma, si stabilisca una connessione con l’assemblea, cercando di coinvolgerli personalmente al canto, magari facendo ripetere certe cose quando si percepisce che la partecipazione non è stata poi così generosa, e soprattutto non pretendere l’impossibile. Se l’assemblea può unirsi in alcuni ritornelli o in alcune acclamazioni, già la loro partecipazione al canto è assicurata. Io ho l’esperienza in questo senso quando vivevo in Asia. Nelle Messe in cui avevo la responsabilità della musica liturgica, pretendevo che fossero cantate le antifone tratte dal messale per l’introito e la comunione, quindi ogni domenica i testi cambiavano. Allora, c’erano alcune versioni di queste antifone (o le componevo io) in lingua inglese, ed erano abbastanza semplici. Prima della Messa, le facevo cantare al coro per farle imparare all’assemblea. Non pretendevo che tutti cantassero, tanto questo non succede in ogni caso. Ma c’erano quelli che si univano volentieri al canto, e questo era anche un canto veramente liturgico perché si cantavano i testi della Messa. Come viene spesso detto non bisogna cantare durante la Messa, ma bisogna cantare la Messa. Certo, questo richiede un certo impegno da parte della Chiesa stessa e da parte dei musicisti che hanno l’incarico di fare queste cose. Ecco perché non si può affidare tutto al primo che sa suonare il giro di Do. Ma questo è stato già detto troppe volte.

giovedì 5 marzo 2020

Ave Regina Coelorum, il saluto a Maria nel tempo di Quaresima

Nel campo della musica liturgica, ci sono delle consuetudini che vengono tramandate perché si ritengono molto utili ed efficaci per aumentare una partecipazione consapevole alla liturgia stessa. Per esempio, il fatto di usare certi specifici canti in certi tempi liturgici vuole fare in modo che, attraverso il richiamo di una certa musica è un certo testo, si rafforzi nel fedele la percezione generale riguardo l’anno liturgico. Un esempio è quello delle antifone mariane. Nel tempo di Quaresima, solitamente alla fine della Messa, c’è l’uso di cantare Ave Regina Coelorum. Questa antifona nella forma straordinaria viene eseguita alla Compieta, dalla Purificazione fino alla Settimana Santa. Cosa sappiamo degli origini di questa antifona? Ci sono state varie teorie, come che essa fosse addirittura risalente al IV secolo, forse perché si trovano concetti che possono essere fatti risalire a quel tempo. Altri pensano che sia molto più recente, dodicesimo o tredicesimo secolo (Henry, H. (1907). Ave Regina. In The Catholic Encyclopedia. New York: Robert Appleton Company. Retrieved March 5, 2020 from New Advent: http://www.newadvent.org/cathen/02149b.htm). In un articolo dell’agenzia Fides del 20/2/2007 (firmato J.M.) viene detto: “Le origini di questa preghiera sono misteriose ed il suo autore è sconosciuto. Si pensa che risalga probabilmente al XII secolo, alcuni dicono che avrebbero potuto comporla San Bernardo o Ermanno Contractus. Più anticamente, era ciò che veniva chiamata “antifona di processione”. Viene menzionata nel libro di Sant’Albano. Il versetto “Dignare me laudare” è particolarmente antico. Viene comparato all’Akathistos, un inno orientale. La preghiera è in genere divisa in due strofe e può terminare con un “Oremus””.
Il testo tradotto in italiano dice: “Ave, Regina dei cieli, ave, Signora degli Angeli; salve, o radice, salve, o porta da cui sorse la luce per il mondo. Gioisci, vergine gloriosa, splendida sopra tutti; salve, o sommamente degna, e supplica Cristo per noi”. Nell’articolo citato dell’agenzia Fides così viene spiegato: “Ciò che si dice di Maria nell’Ave Regina è sempre in relazione con Cristo, che è il Re del mondo nella fede cattolica. Teologicamente, l’espressione «radice feconda» ricorda che Maria è la radice di Jesse, il padre del re Davide. Si dice anche che Maria sia la porta del cielo perché nella teologia cristiana, il Sacro Cuore di Gesù ed il Cuore Immacolato di Maria sono come le porte del paradiso. La frase «per te la luce si è alzata sul mondo» si riferisce alla nascita di Gesù, che è la luce del mondo per coloro che credono in Lui. La preghiera fa riferimento alle qualità mediatrici della Vergine Maria, che viene religiosamente chiamata “Mediatrix”, poiché può implorare per l’umanità presso Dio. Infine, il versetto «Rallegrati, Vergine gloriosa», ricorda il «Gaude et laetare, Virgo Maria» del Regina Coeli“.Maria, è regina e signora degli angeli, per il suo ruolo del tutto speciale nella redenzione. Nel formulario per le Messe per la Vergine Maria in tempo di Avvento, al Prefazio viene detto: “Tu hai stabilito in Maria di Nazaret   il culmine della storia del popolo eletto e l'inizio della Chiesa, per manifestare a tutte le genti che la salvezza viene da Israele e da quella stirpe prescelta scaturisce la tua nuova famiglia. È figlia di Adamo per la nascita colei che nella sua innocenza riparò la colpa di Eva; è discendente di Abramo per la fede colei che credendo divenne madre; è pianta della radice di lesse la Vergine dal cui grembo è germogliato il fiore Cristo Gesù salvatore del mondo”. In un trattato del cremonese Giovanni Battista Guarini del 1609 chiamato Della gierarchia, overo del sacro regno di Maria Vergine Madre d’Iddio e Reina del cielo, viene detto “Esaia profeta disse, che la verga e il fiore, Christo e MARIA VERGINE, dovevano nascere dalla medesima radice per mostrare, che la grandezza dell’uno e dell’altra doveva sorgere e nascere dall’istessa radice e dalla medesima causa dell’humiltà”. Vittorio Messori, nel suo Ipotesi su Maria, giustamente dice: “Con le incursioni cui si procede in questi capitoli, vorrei mostrare ciò che ho sperimentato: senza la radice di carne che è il corpo di quella Donna, tutto il mistero dell’Incarnazione finisce col perdere l’indispensabile materialità per farsi evanescente spiritualismo, moralismo sermoneggiante o, peggio, pericolosa ideologia”. Inoltre, nell’antifona di cui stiamo parlando, la Beata Vergine Maria viene definita come la porta “da cui sorse la luce del mondo”. Ricordiamo che nell’inno del IX secolo Ave Maris Stella, la Vergine Maria è definita felix coeli porta, felice porta del cielo. Cioè,  se mettiamo insieme i due concetti, essa è porta con cui andiamo al cielo e porta con cui il cielo va sulla terra.
Nella seconda parte del breve testo, viene chiesto a Maria di rallegrarsi, perché essa fu prescelta in modo del tutto speciale da Dio. E proprio per questa sua elezione speciale la invochiamo perché essa possa supplicare Cristo per noi. Tra la prima e la seconda parte del testo, si nota una cesura, la salutazione a Maria nella prima parte si affida alla teologia presentandola con i concetti che abbiamo esposto in precedenza, ma nella seconda parte si affida più alle esaltazioni quasi estetica ed estatica delle virtù della Beata Vergine. Padre Donald H. Calloway, nel suo libro Under The Mantle, così dice della Beata Vergine: “Mary is the perfect spouse of God. Once again, if you or I could create our own  spouse, we would create a spouse without any flaws or imperfections — one good and  virtuous and worthy of praise. As a man, I would create a masterpiece of feminine  beauty. She would be the woman of my dreams. Angels would bow down in her  presence, and everyone would be subject to her, sing songs about her, and praise her  loveliness and unique beauty. All darkness and demons would flee at her presence, and  the very fragrance of her person would make grown men cry. My lady would be the  best!”. Ecco, questa è la perfezione con cui noi pensiamo Dio ha immaginato Colei che sarebbe stata la madre di suo Figlio, Maria, la Vergine Maria.

Noi ci riferiamo a due melodie per quanto riguarda questa antifona, una elaborata e ricca di melismi e quella popolare. In quella elaborata, nel sesto modo, notiamo come gli “Ave“ vengano declamati quasi a sé stanti. È una melodia bella e nobile, piena di grande solennità e fascino. Nella melodia semplice, di probabile origine ottocentesca, nello stesso modo e sillabica, notiamo nella prima parte uno schema ABAC. Nella seconda parte la tessitura si sposta più nella quinta superiore al Fa finalis, piuttosto che nella regione del Tritus plagale (pur rimanendo in questo modo) con una particolare enfasi sulla frase finale, quasi che in quel momento il popolo orante potesse raccogliere tutte le proprie forze per invocare l’intercessione della Madre verso Nostro Signore.

mercoledì 4 marzo 2020

Riscoprire la confessione

Credo che il lavoro compiuto dai confessori sia veramente un lavoro duro. Dover leggere nell'anima delle persone per poterle aiutare e giudicare, non è certamente facile. Uno dei temi che mi affascina molto è quello della libertà: quanto le persone sono veramente libere quando peccano. Mi domando questo non per giustificare il peccatore ma semplicemente perché non si può fare a meno di considerare quelle che sono le nuove conoscenze in psicologia, come certi comportamenti siano in realtà un riflesso di disagi mentali molto profondi che sono difficili da controllare. Il padre Paolo Gabriele Antoine nel suo "Compendio di tutta la teologia morale" (1819) osservava: "La libertà in genere è lo stesso che immunità: per la qual cosa la libertà è di tante spezie, di quante è l'immunità. L'immunità è di sei spezie, e sono, immunità dalla servitù, immunità da impedimento, immunità dalla miseria, immunità dal peccato, dalla coazione, e dalla necessità".  Quanto difficile pensare che si pecchi liberi da tutte le "immunità" a cui si riferiva il padre Antoine. Ecco perché anche nella morale del passato, c'erano già tutte le soluzioni a molti dei dilemmi morali della contemporaneità, con l'avvertenza di considerare anche i recenti sviluppi nel campo della psicologia. Bisogna però stare attenti che non si riduca tutto alla psicologia, come purtroppo accade in tanta pastorale odierna. Molti disagi, seppur hanno un connotato psicologico, sono certamente di origine spirituale e come tali vanno affrontati.
Interessante il pensiero di Elémire Zolla nel suo "Gli arcani del potere":  "Le norme morali hanno senso nella misura in cui si giustifichino dinanzi a un tribunale superiore, cioè nella misura in cui conferiscano la quiete; infatti se sono rettamente intese si risolvono in consigli, in constatazioni di equilibri psichici: se ometterai questa azione non sarai turbato –è la giusta forma della norma morale: l’apodosi varia a seconda dei tempi e dei luoghi e delle vocazioni, il contenuto è sempre relativo, mentre il criterio della contemplazione resta l’asse immutevole che non può vacillare". È certamente importante per un confessore fare in modo che il penitente non perda la sua "opzione fondamentale", malgrado i peccati di cui si è macchiato e malgrado le sue indegnità. Anche qui, bisogna stare molto attenti, a non far divenire questa opzione fondamentale come una scusa per poter fare quello che si vuole. I modernisti sono stati molto bravi nell’usare delle cose in fondo giuste per i loro scopi; in questo gli si deve riconoscere una grande abilità.
Benedetto XVI, il 25 marzo 2011, così diceva: "Nel nostro tempo caratterizzato dal rumore, dalla distrazione e dalla solitudine, il colloquio del penitente con il confessore può rappresentare una delle poche, se non l’unica occasione per essere ascoltati davvero e in profondità. Cari sacerdoti, non trascurate di dare opportuno spazio all’esercizio del ministero della Penitenza nel confessionale: essere accolti ed ascoltati costituisce anche un segno umano dell’accoglienza e della bontà di Dio verso i suoi figli. L’integra confessione dei peccati, poi, educa il penitente all’umiltà, al riconoscimento della propria fragilità e, nel contempo, alla consapevolezza della necessità del perdono di Dio e alla fiducia che la Grazia divina può trasformare la vita. Allo stesso modo, l’ascolto delle ammonizioni e dei consigli del confessore è importante per il giudizio sugli atti, per il cammino spirituale e per la guarigione interiore del penitente. Non dimentichiamo quante conversioni e quante esistenze realmente sante sono iniziate in un confessionale! L’accoglienza della penitenza e l’ascolto delle parole “Io ti assolvo dai tuoi peccati” rappresentano, infine, una vera scuola di amore e di speranza, che guida alla piena confidenza nel Dio Amore rivelato in Gesù Cristo, alla responsabilità e all’impegno della continua conversione". Ecco, raggiungere la consapevolezza che si ha bisogno del perdono di Dio è un importante punto di arrivo per ciascuno di noi. Purtroppo tante persone si sentono indipendenti, si assolvono da sole o almeno così credono. Questo è quello che la società di oggi gli fa credere e purtroppo anche la stessa Chiesa non fa molto per cercare di cambiare questa percezione. Bisogna anche dire che l’allontanamento dalla confessione si accompagna con un maggiore stato di sfiducia nei confronti dei sacerdoti, visti oggi come inaffidabili anche in seguito ai tanti scandali in cui molti di loro sono stati coinvolti.
Insomma, la confessione è uno dei sacramenti in più grande difficoltà, segno e specchio di una Chiesa che si dibatte in una crisi che non vede una soluzione nel futuro più prossimo.