Ci piace a volte vivere nella menzogna, ci fa comodo, lo troviamo piacevole. Abbiamo già detto come sarà la verità a liberarci, ma per arrivare alla verità il cammino è lungo, lungo e difficile. A volte ci sono persone che non ci arrivano in una vita intera. E anche chi vuole arrivarci, per scalare la montagna deve passare tanti ostacoli, tante delusioni. E spesso, come i cavalieri ci insegnano, il nemico più grande non è di fronte a te, ma dentro di te.
Una frase dal libro della Sapienza (16, 17) mi è sembrata sempre molto significativa: “l’acqua che tutto spegne, ravvivava sempre più il fuoco”. Io l’ho interpretata nel senso che le cose che più dovrebbero placarci, spesso le usiamo per aumentare il problema che devono risolvere. Dico subito che la mia è una interpretazione che esula dal contesto di quel capitolo, in cui questa frase ha un senso più positivo, ma questa mia forzatura interpretativa mi serve per esprimere qualcosa che penso importante. Facciamo l’esempio della religione. Essere religiosi dovrebbe essere considerata una cosa buona, noi pensiamo che avere un atteggiamento religioso nella vita è il bene più grande. Ma è sempre così? No, non sempre, perché da alcuni la religione è usata come schermo per nascondere disagi psicologici profondi. È bene che chi ha disagi di ogni tipo cerchi consolazione nella religione, ma non usandola per fornirsi di una maschera di fronte agli altri. Ci sono le religiosità patologiche, le persone che usano la religione come userebbero gli psicofarmaci. Ecco perché bisogna aiutare queste persone a cercare il volto autentico di Dio, non la caricatura che serve a farli stare apparentemente meglio.
Benedetto XVI, nell’udienza del 16 gennaio 2013 tra l’altro diceva: “Vorrei soffermarmi su questo “rivelare il volto di Dio”. A tale riguardo, san Giovanni, nel suo Vangelo, ci riporta un fatto significativo che abbiamo ascoltato ora. Avvicinandosi la Passione, Gesù rassicura i suoi discepoli invitandoli a non avere timore e ad avere fede; poi instaura un dialogo con loro nel quale parla di Dio Padre (cfr Gv 14,2-9). Ad un certo punto, l’apostolo Filippo chiede a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Filippo è molto pratico e concreto, dice anche quanto noi vogliamo dire: “vogliamo vedere, mostraci il Padre”, chiede di “vedere” il Padre, di vedere il suo volto. La risposta di Gesù è risposta non solo a Filippo, ma anche a noi e ci introduce nel cuore della fede cristologica; il Signore afferma: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In questa espressione si racchiude sinteticamente la novità del Nuovo Testamento, quella novità che è apparsa nella grotta di Betlemme: Dio si può vedere, Dio ha manifestato il suo volto, è visibile in Gesù Cristo. In tutto l’Antico Testamento è ben presente il tema della “ricerca del volto di Dio”, il desiderio di conoscere questo volto, il desiderio di vedere Dio come è, tanto che il termine ebraico pānîm, che significa “volto”, vi ricorre ben 400 volte, e 100 di queste sono riferite a Dio: 100 volte ci si riferisce a Dio, si vuol vedere il volto di Dio. Eppure la religione ebraica proibisce del tutto le immagini, perché Dio non si può rappresentare, come invece facevano i popoli vicini con l’adorazione degli idoli; quindi, con questa proibizione di immagini, l'Antico Testamento sembra escludere totalmente il “vedere” dal culto e dalla pietà. Che cosa significa allora, per il pio israelita, tuttavia cercare il volto di Dio, nella consapevolezza che non può esserci alcuna immagine? La domanda è importante: da una parte si vuole dire che Dio non si può ridurre ad un oggetto, come un'immagine che si prende in mano, ma neppure si può mettere qualcosa al posto di Dio; dall’altra parte, però, si afferma che Dio ha un volto, cioè è un «Tu» che può entrare in relazione, che non è chiuso nel suo Cielo a guardare dall’alto l’umanità. Dio è certamente sopra ogni cosa, ma si rivolge a noi, ci ascolta, ci vede, parla, stringe alleanza, è capace di amare. La storia della salvezza è la storia di Dio con l'umanità, è la storia di questo rapporto di Dio che si rivela progressivamente all’uomo, che fa conoscere se stesso, il suo volto”. Ecco, spesso noi preferiamo sostituire a questo volto un simulacro, cerchiamo consolazione in certi aspetti della religione che ci fanno sentire bene, ma che non ci fanno in definitiva stare bene.
Da musicista, devo dire che questo accade nella musica, dove molte persone non seguono la musica per compiere un cammino interiore, ma solo per mascherare ben altri problemi. Quanti ce ne sono! Abbiamo la tendenza ad usare cose buone in un modo improprio, per nascondere altre cose contro cui abbiamo difficoltà a combattere. Essere sinceri con se stessi, abitare nella verità, è un percorso di tutta una vita, e ci può costare anche l’isolamento sociale, l’incomprensione nella nostra stessa famiglia. Ma abitare nella menzogna? Cosa si prova a vivere nella menzogna per tutta la vita? Alcuni non se ne rendono neanche conto.
Dobbiamo fare in modo che quell’acqua che tutto spegne non serva a ravvivare il fuoco, ma a dissetarci, a fare in modo che possiamo sentirci profondamente ristorati e con il coraggio di ricominciare sempre il cammino. Nei salmi ci si offre l’immagine della cerva che anela ai corsi d’acqua. Ecco, dobbiamo coltivare quel desiderio per l’acqua che disseta, non per quella che serve a ravvivare il fuoco.
Guardate che il cammino alla consapevolezza spirituale è doloroso, perché bisogna liberarsi di atteggiamenti interni ed esterni che abbiamo coltivato per tutta una vita. Se abbiamo sempre camminato male, poi ci costerà camminare correttamente, perché non lo abbiamo mai sperimentato. E quindi forse continueremo a zoppicare, ma lo faremo perseguendo quanto è bello, buono e vero. Diceva sant’Agostino che è meglio zoppicare sulla via giusta che correre su quella sbagliata. Bisogna cercare di intraprendere un cammino di verità su noi stessi, accettando le sofferenze che ne derivano, perché solo questo ci permetterà di riappropriarci del nostro essere più intimo.
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