La lezione di Dante Alighieri avrà le sue conseguenze sul pensiero estetico dei secoli d’oro del Rinascimento. Questa rinascita della carnalità nel cuore dello spirituale sarà un tema che pervaderà molti secoli della spiritualità cristiana, che sarà anche percossa da scosse devastanti, specialmente quelle provenienti da paesi al di là delle Alpi. Ora, un autore su cui ci si dovrebbe soffermare un attimo, per inquadrare il Rinascimento estetico è Michelangelo. Un giorno di svariati anni fa, grazie ad un particolare servizio liturgico che svolgevo in una mia vita precedente, ebbi la fortuna di entrare nella Cappella Sistina quando essa era praticamente semivuota e non assediata da orde di turisti guardoni (devo dire che questa esperienza mi accadrà poi per alcune altre occasioni, sempre con rinnovato piacere). Nell’occasione di questa visita quasi solitaria mi ero ovviamente fissato sulle immagini immaginifiche del grande fiorentino, immagini che incombono dalla volta della celebrata Cappella e anche avevo gettato lo sguardo sull’incombente “Giudizio Universale”. Consentitemi un rapido flashback. In quel periodo, avevo anche avuto la possibilità di visitare con calma quello che rimaneva dell’antica Chiesa di San Crisogono in Trastevere, nella mia Roma. Ora, la Chiesa attuale di San Crisogono mi è estremamente familiare essendo praticamente cresciuto tra questa parrocchia e la mia parrocchia di origine, Santa Maria in Trastevere. Ma la visita alla chiesa sotterranea mi aveva colpito perché avevo fissato l’attenzione su alcuni dipinti che ancora si scorgevano sulle pareti, dipinti medioevali che raffiguravano la vita di santi. Non so perché, tornando alla Sistina, queste due immagini, la presente e quella della chiesa medioevale si fondevano e domandavano una razionalizzazione da parte mia. In cosa, questi dipinti differivano essenzialmente da quelli di San Crisogono? Non stiamo parlando della forma pittorica, non era quella l’essenza del problema, c’era qualcosa di spirituale che tracciava una differenza essenziale fra le due esperienze di fede. Allora cercavo di guardare con attenzione alla volta della Cappella, disturbato solo dal silenzio che rimbombava nella mia anima facendola penare nell’attesa di un senso alle mie, forse non inutili, peregrinazioni intellettuali. Ad un certo punto mi era sembrato di capire qualcosa: osservavo la forma dei dipinti michelangioleschi e vedevo come il pittore avesse curato i dettagli anatomici con una cura particolare, così come mi era capitato di osservare più volte nella Pietà in san Pietro. Quante volte mi ero soffermato, giusto all’entrata della Basilica, spesso in agognata solitudine, a discorrere con le sensazioni che mi arrivavano fluttuando nell’aria e che provenivano da quel regno misterioso in cui solo l’arte e lo spirito hanno diritto di cittadinanza. Guardando quella giovanetta che teneva in braccio un uomo apparentemente più vecchio di lei, che le era madre e figlia (ancora Dante), mi domandavo perché quella cura meticolosa in quelli che sono solo elementi corporali, non dimensioni dello spirito (cosi’ pensavo, almeno). Cosa si nascondeva dietro quest’amore del particolare? Mi sembrava che la risposta a questa questione rivelasse quello che ci era apparentemente nascosto. Continuando a gettare la mia mente oltre me stesso, volevo entrare di più nel mistero. Voleva capire quello che probabilmente mi avrebbe aperto altre porte oltre il visibile, Michelangelo mi stava insegnando una lezione che non avrei dimenticato facilmente, quella della fondamentale differenza fra guardare e vedere. Guardare è puramente una esperienza sensoriale, una esperienza che impegna la nostra vista come organo recettore di immagini; vedere è qualcosa di diverso, qualcosa di più profondo. In effetti la parola stessa sembra provenire da una radice sanscrita, “vid”, che significa “io conosco”. Sappiamo che nell’antica India si venerava una raccolta che aveva come nome “la conoscenza”, che ritradotto nell’antico sanscrito era “Vedas”. Quindi vedere è conoscere. Michelangelo, attraverso la cura del dettaglio non vuole ambire ad un eccesso di realismo, ma vuole condurre la visione dalla realtà all’oltre. Michelangelo ci dice, come ci dirà Caravaggio, che quello che accade nel mondo dello spirito, dalla Creazione al Giudizio finale, non è un avvenimento lontano e quasi irreale, puramente vissuto nel mondo interiore, ma è qualcosa di così reale che potremmo quasi toccarlo.
Un’influenza determinante sul nostro Michelangelo l’avrà un pensatore che sarà ricordato per aver riportato il nostro Platone all’attenzione generale (neoplatonismo), Marsilio Ficino. Il noto semiologo e già docente alla Gregoriana, Sante Babolin, così ci descrive il pensiero del Ficino: “Per Ficino la bellezza rappresenta il riflesso o splendore del sommo Bene nel mondo visibile (…); L’estetica segna il passaggio dal mondo sensibile all’eterno; e la stessa conversione a Dio è opera dell’arte, per la sua forza invincibile di persuasione. Questa idea è dominante nel suo dialogo Sopra l’amore ovvero Convito di Platone. La bellezza è quindi identificata con la grazia: non esistono modelli da imitare; si dà corpo all’idea attraverso una continua tensione verso l’infinito. Tale tensione, in pittura, viene espressa dal contrasto tra la luce e la tenebra. Questa spiritualità avrà un grande influsso in Sandro Botticelli e in Leonardo da Vinci, nel quale la forza della persuasione diventa seduzione” (Sante Babolin, “L’uomo e il suo volto”, 2000 Hortus Conclusus, pag. 32). Così si va dal visibile all’invisibile. Il pensiero neoplatonico verrà anche visto con sospetto da alcuni. Il teologo Ennio Innocenti, nel suo studio sulla Gnosi spuria sospetterà Marsilio Ficino di pensiero non pienamente conforme alla dottrina cattolica, pur assolvendo sostanzialmente il suo allievo Michelangelo.
Come persuade l’arte? Nelle rappresentazioni medioevali assistevamo a questi corpi quasi stilizzati, spesso persi in una luce dorata che ne impreziosiva le fattezze facendone oggetti/soggetti di ammirazione estatica, più che di contemplazione estetica. Attraverso la riscoperta umanista della centralità dell’uomo in quanto uomo, riscoperta che confluirà nell’agone rinascimentale, la figura umana diventa centrale nella meditazione e nella pratica artistica. Vedendo i corpi perfettamente torniti nelle rappresentazioni michelangiolesche ci fa pensare a come dal dato concreto l’artista ci vuole trasportare al dato invisibile. La salvezza è della persona in quanto persona umana, fatta di corpo e sangue, anima e passioni, altezze e decadenze. La bellezza è lì, la puoi vedere e toccare. Questa bellezza e riflesso della Bellezza, non un pendaglio disdicevole, ma una via che apre all’infinito.
Mi ha fatto sempre pensare un apparente paradosso. Il Rinascimento, come sappiamo, è stato un secolo in cui si è assistito ad un esplosione di arte, creatività e santità senza precedenti. Ma, anche, è stato un secolo di grande deriva morale nella Chiesa Cattolica; i Papi dai costumi più che rilassati ancora oggi riecheggiano in fin troppe pagine nei nostri libri di storia. Certo, ho parlato di paradosso e non di contraddizione. In effetti questa bellezza ostentata, ricercata nel più piccolo dettaglio anatomico, respirata in ogni via e viuzza, questa bellezza ha anche il suo effetto secondario. Potrei anche fare menzione della mistica e della sua “deriva”, la pazzia per Dio (Cfr. Marcello Del Vecchio, Misticismo paranormale e follia, Guida editori pag. 19. In effetti questo testo fa menzione anche di un passaggio in san Paolo in cui si dice che i cristiani sono “stoltezza”. Sembra esserci un rapporto rovesciato con quella che viene definita la sapienza del mondo. Gesù stesso, come forma di cristianesimo più puro invita ad essere non come i dotti, ma come i bambini). Ora, è evidente che la bellezza così cercata nell’epoca rinascimentale possa esplodere poi in mille forme sotterranee, intossicando coloro che di bellezza si circondano. Questo fenomeno è evidente anche nelle vite di tanti artisti, che sono esposti continuamente alla bellezza, che la cercano ardentemente. Spesso le loro vite private sono caotiche, sempre alla ricerca di soddisfare questo bisogno di bellezza anche nella ricerca di piaceri sessuali. C’è un collegamento fra la bellezza ricercata nell’arte e la bellezza cercata (e usata, si potrebbe dire) ricercata nel piacere effimero? Vorrei escluderlo ma non me la sento. L’artista illumina la società in cui vive e per illuminare spesso deve bruciare lui stesso. Questo fuoco che lo divora lo porta a lente agonie fatte di cento spasimi nei mille anfratti impregnati di peccato. Ripeto, c’e’ un collegamento fra la ricerca della Bellezza e la ricaduta nella bellezza così vilmente cercata? Mi piacerebbe dire che non c’è per salvare le apparenze di un mondo che ci piacerebbe quadrato, ma il mondo è rotondo, non ha ne inizio e né fine, il suo senso non si basa sul consenso, su quello che vorremmo che fosse. Quindi la contraddizione fra licenziosità dei chierici rinascimentali e esplosione artistica specialmente nell’arte sacra, in effetti, potrebbe non esserci. Non si vuol dire che il peccato fa l’arte più bella, si vuol dire che l’arte bella può ubriacare, come il buon vino. E stiamo parlando di persone che ricercano piaceri carnali o materiali che sono bagaglio della nostra (decaduta) natura umana. Nulla a che vedere con le turpitudini di cui ascoltiamo in questi ultimi mesi a danni di innocenti. Qui non c’è nessuna ricerca di bellezza, c’è solo una natura malata. Io sono certo che il Papa Benedetto XVI soffriva enormemente per il male che si procurava alle anime di tanti innocenti ingannati da persone di cui si fidavano per l’abito che esse portavano (e in alcuni casi ancora portano). E immagino anche il presente Pontefice soffrire enormemente per questo.
Un altro genio della bellezza nel Rinascimento, il “musicista teologo”, come sarà definito è Giovanni Pierluigi da Palestrina, compositore astrale e massimo rappresentante di quella che viene chiamata la “Scuola Romana”. Le caratteristiche di questa scuola romana, che sono esemplificate nel nostro autore sono: la cantabilità, il prediligere il singolo cantore alla massa corale, l’attenzione assoluta al testo sacro, l’adesione piena della musica al rito liturgico, senso forte della Tradizione, la pratica della cantoria, una grandiosità delle concezioni unita anche ad una penetrazione del testo nei più segreti ambiti emotivi, diremmo oggi, psicologici. I repertori che come modello assoluto contengono al meglio queste caratteristiche sono il canto gregoriano e la polifonia rinascimentale. Non dimentichiamo inoltre, che la musica occidentale ha un debito enorme verso la pratica musicale della Chiesa cattolica, da cui scaturiranno poi le molte forme sacre e profane che hanno dato gloria alla nostra civiltà.
Quanto da me detto ha anche una conferma ufficiale dalle parole di un Papa, che è anche santo, Pio X. Il Motu proprio di San Pio X (22 novembre 1903) dopo aver affermato che la vera musica sacra deve avere come qualità principali, la bontà di forme, la santità e l’universalità, dice: “Queste qualità si riscontrano in grado sommo nel canto gregoriano, che è per conseguenza il canto proprio della Chiesa Romana, il solo canto che essa ha ereditato dagli antichi padri, che ha custodito gelosamente lungo i secoli nei suoi codici liturgici, che come suo direttamente propone ai fedeli, che in alcune parti della liturgia esclusivamente prescrive e che gli studi più recenti hanno sì felicemente restituito alla sua integrità e purezza. Per tali motivi il canto gregoriano fu sempre considerato come il supremo modello della musica sacra, potendosi stabilire con ogni ragione la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e più liturgica, quanto più nell’andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto è meno degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme (…). Le anzidette qualità sono pure possedute in ottimo grado dalla classica polifonia, specialmente della scuola Romana, la quale nel XVI secolo ottenne il massimo della sua perfezione per opera di Pierluigi da Palestrina e continuò poi a produrre anche in seguito composizioni di eccellente bontà liturgica e musicale. La polifonia assai bene si associa al supremo modello di ogni musica sacra, che è il canto gregoriano, e per questa ragione meritò di essere accolta insieme col canto gregoriano, nelle funzioni solenni della Chiesa, quali sono quelle della Cappella Pontificia(…).” (Motu proprio II, 3-4). Quale è la grandezza di questo autore? Io mi sento talvolta anche inadeguato a parlarne. In un certo senso il suo è un approccio Michelangiolesco, ma in lui umano e divino si fondono in una bellezza che sembra veramente venire da una dimensione altra. È l’abbandono mistico alla voce di Dio che ci parla attraverso la musica. Se si ascoltano i suoi mottetti, Sicut Cervus, Super flumina Babylonis, Ego sum Panis vivus, sembra che un altro mondo ci stia tendendo la mano, sembra che il dolore, ogni dolore, la gioia, ogni gioia, si fonde in una dimensione che è “oltre”. Le nostre orecchie possono ascoltare queste polifonie formalmente ineccepibili, ma il nostro cuore non può che intuire quell’attimo di eterno che si riversa nel pesante istante. Mentre gli uomini di Dio si difendevano dallo splendore dell’arte che loro stessi avevano contribuito a creare, il nostro intesseva di contrappunti il suo ordito spirituale. E all’ascolto, ogni cuore si incendiava di somma gioia.
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