L’uomo interroga se stesso.
Questo fenomeno, che accompagna tutti i periodi della nostra storia, si fa particolarmente presente in certi momenti piuttosto che in altri. L’arte, come già visto in precedenza, è mezzo privilegiato di questo interrogarsi in quanto con essa e in essa noi siamo capaci di domande che con termine oggi usato potremmo definire “laterali”, cioè che potrebbero sfuggire ai nostri comuni schemi di pensiero e alle presupposizioni che tanto guidano certi nostri ragionamenti. Come penso di aver detto in precedenza, possiamo trovare questo modo di pensare anche in un teologo di enorme influenza nel secolo XX, Karl Rahner, teologo che avrà un’influenza anche nefasta sul pensiero teologico moderno. In un suo importante articolo su arte e teologia (Rahner, Karl (1982). Theology and the Arts in: Thiessen, Gelsa Elsbeth (2004). Theological Aesthetics. A Reader. Gran Rapids, Michingan, USA: Erdmanns, pagg. 218-222) egli ci da la chiara misura di come l’arte sia un chiaro complemento della teologia e come tale debba essere attentamente considerata negli studi del settore. Ma questo ancora stenta ad entrare nella mentalità di tanti teologi, preoccupati di tener separati gli ambiti dei due settori, come se l’arte potesse contaminare la teologia, contaminare “la scienza”. Non sanno quello che si perdono. L’arte offre chiavi nuove per la comprensione delle realtà che ci superano e dovrebbe essere attentamente considerata.
Come andiamo vedendo nell’esplorazione di figure e periodi importanti della nostra civiltà, arte e teologia possono contribuire fortemente alla nostra comprensione teologica, anche in periodi in cui la teologia è probabilmente meno vivace che in altri. Questo mi sembra il caso nel periodo storico che chiamiamo Barocco. E da uno dei suoi protagonisti partiamo per questa riflessione.
Ancora ricordo con chiarezza quel giorno di tanti anni fa. Camminavo per la mia bella Roma, non ricordo se andavo da qualche parte precisa o semplicemente mi piaceva andarmene a spasso senza una meta. Insomma, mi trovai in una zona chiamata Esquilino, zona fortemente multietnica e centro trafficato anche per la presenza della stazione ferroviaria centrale di Roma, la stazione Termini. Io ero abbastanza vicino alla stazione Termini, a dieci minuti da essa. Ero di fronte ad una delle quattro Basiliche maggiori di Roma, una bella chiesa visitata da tanti turisti e pellegrini da tutto il mondo: Santa Maria Maggiore. Santa Maria Maggiore è proprio bella, con la sua eleganza classica, ordinata, rassicurante. Entrai nella chiesa e cominciai a vagare per i suoi generosi spazi. A un certo punto mi trovai alla destra dell’altare centrale, bellissimo monumento al dramma che su quell’altare si consuma da secoli e secoli. Una scritta latina su uno dei gradini laterali dell’altare attrasse la mia attenzione, una scritta che mi fu agevole volgere immediatamente in italiano: “Gian Lorenzo Bernini qui aspetta la risurrezione”. Quella scritta mi colpì molto, non solo perché mi trovavo di fronte ad uno degli artisti più geniali della nostra civiltà, ma anche per come era formulata la frase in se stessa. Ci torno presto.
Gian Lorenzo Bernini (1598-1680) è uno degli artisti che più hanno segnato l’arte cristiana ed è una delle perle del periodo barocco. In effetti questa definizione, la perla, sembra un pochino ironica, in quanto lo stesso termine “barocco” sembra significare una perla malriuscita, quindi è un termine dispregiativo, proveniente pare dal portoghese o dallo spagnolo (Adorno, Pietro (1987). L’arte italiana. Le sue radici Greco-romane e il suo sviluppo nella cultura europea. Vol. II: Il rinascimento e il barocco. Messina-Firenze, Italia: Casa Editrice G. D’Anna). Perché un termine dispregiativo per indicare questo periodo? Perché secondo alcuni nel barocco si era persa la “classicità” dei secoli precedenti. In effetti ancora oggi noi usiamo questo termine anche in senso negativo quando diciamo che qualcuno ha una “retorica un po’ barocca”, nel senso di artificiale. E questa, nei secoli immediatamente successivi al barocco, sarà la visione predominante di questa età.
Nel periodo della razionalità illuministica che, specialmente grazie ad Immanuel Kant, in un certo senso cambierà il modo in cui noi vediamo il mondo, il barocco era visto come l’era dell’eccesso, dell’artificio, dell’innaturale. Non dimentichiamo anche che questo periodo è una derivazione del tardo manierismo, anche in questo caso una definizione in negativo dell’arte data a coloro che si allontanavano dalla classica bellezza dell’arte rinascimentale per ricercare emozioni artificiose.
Forse, come Pietro Adorno (1987) afferma, “il barocco è la continuazione logica del manierismo, che ne è la premessa. Se questo esprime la crisi della società rinascimentale, l’angoscia del dubbio, l’urto tra la Riforma protestante e la Controriforma cattolica, il barocco è l’arte del trionfo controriformista e dell’assolutismo sovrano, sia quello papale a Roma, sia quello monarchico in Francia o in Spagna; ma è anche l’arte dell’introspezione psicologica dell’uomo, l’espressione del suo dramma” (pag. 690). Questa lettura dello storico dell’arte può trovarci sostanzialmente d’accordo. Il barocco è lo stile della reazione, una reazione che non riporta allo stadio precedente, ma che veramente “reagisce”, cioè si pone in conflitto con le sollecitazione che la storia poneva in quel periodo. Conflitto, non sempre teso a negare, ma talvolta anche spinto ad integrare quelle tensioni e pulsioni che il tempo faceva fatica a trattenere. Quando noi guardiamo qualcosa, in un certo senso, siamo anche cambiati dalla cosa stessa che guardiamo: “L’osservatore guarda l’oggetto,/ ma l’oggetto cambia l’osservatore,/ e quindi l’osservatore non guarda all’oggetto” (Elkins, James (1996). The object stares back. On the nature of seeing. New York USA: A Harvest Book, Harcourt Inc.pag. 43). Che significa? L’osservazione cambia il punto di vista dell’osservatore, quindi anche ciò che avversiamo, che fronteggiamo, che combattiamo, ci cambia. Questo credo sia osservabile nello scontro tra tendenze religiose nelle varie epoche della nostra storia.
Insomma, la Roma controriformista di Bernini, come reagisce alle istanze della riforma luterana? Riaffermando il trionfo del cattolicesimo, rafforzando la devozione eucaristica, il culto mariano con le varie processioni. Bernini è uno dei protagonisti assoluti di questa stagione per molti versi straordinaria. Ma di lui vorrei mettere in luce qualcosa che mi fu sollecitato proprio dall’iscrizione che avevo trovato nel luogo del suo riposo eterno: quel verbo, aspettare. In effetti l’arte del grande Bernini è molto segnata da questa imminenza, come se lui si preoccupasse di fermare un momento ed eternarlo nella immagine artistica.
Mi ha sempre colpito, come a tanti milioni di visitatori che si sono succeduti nel corso dei secoli, la statua dell’estasi di Santa Teresa che si trova nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria. Questa chiesa si trova proprio all’altro lato della strada rispetto all’altrettanto bella chiesa di santa Susanna, dove io ho lavorato per circa dieci anni come Director of Music. Avevo quindi occasioni frequenti di visitare la statua del Bernini e devo dire che l’osservarla m’incatenava sempre a quello sguardo, come se lo scultore avesse voluto fermare quel movimento che si scatenava dall’anima infuocata della Santa. Insomma, Bernini vuole catturare il fremito, vuole “plasticizzare” il movimento.
Naturalmente non sono mancate le interpretazioni in chiave psicoanalitica ed erotica, ma questo credo sia un rendere parziale il senso più totale di questa scultura: è il tutto nell’istante, l’immobile nel fremito, l’eterno nel momento. Come si diceva non sono mancate le critiche a questo capolavoro: “Mentre tutti riconoscono l’eccezionale abilità tecnica nella composizione e nel trattamento del marmo, molti le rivolgono almeno due critiche fondamentali: la spettacolarità teatrale al limite dell’esteriorità e una specie di ambiguità nell’abbandono della Santa in un’estasi d’amore più terrena che divina” (Adorno 1987, 734). Critiche che non erano incomprensibili, visto il modo in cui l’opera si presentava. Ma il livello scelto dall’artista era più in alto.
Voi penserete che questa scultura rappresenti un momento particolare, forse irripetibile della carriera del nostro. Se fosse così, dovrei chiedervi di accompagnarmi in una chiesa non troppo grande del quartiere di Trastevere, non troppo lontano dalla chiesa di santa Maria della Vittoria. In quella chiesa, San Francesco a Ripa, al nostro Bernini oramai anziano, fu affidata un’altra statua, questa volta dedicata all’estasi della Beata Ludovica Albertoni, una donna di origine romana conosciuta anche nello stesso Trastevere per la sua dedizione alla carità verso il prossimo. Andando a guardare quest’altra estasi, che probabilmente ritrae la donna al momento della morte, vediamo come il tema rimane lo stesso. Lo scultore cerca di fermare un istante, non è l’estasi immobile di tanta arte precedente, ma è un estasi che il momento artistico cerca di bloccare. L’arte cerca l’essenza della vita e in questo caso della vita suprema, l’esperienza mistica. Vorrei azzardarmi a dire che in quel periodo (e forse in altri) gli artisti erano più avanti dei teologi.
Se ora facciamo un’altra camminata nella bella Roma, potremmo per esempio avviarci verso il centro di questa città e scoprire un’altra chiesa degna della nostra massima attenzione. Questa chiesa prende il nome di san Luigi dei Francesi e all’interno, tra altre meraviglie artistiche, troviamo una Cappella decorata con alcuni dipinti che sono al cuore della civiltà artistica barocca. Questa cappella era proprietà della famiglia Contarelli che, negli ultimi anni del secolo XVI, commissiona un ciclo di dipinti ispirati alla figura dell’apostolo Matteo. L’autore del ciclo è un pittore burrascoso, attaccabrighe, un carattere focoso pur se profondamente religioso: Michelangelo Merisi, per tutti il Caravaggio (1571-1610. Esiste una abbondantissima letteratura su questo pittore, come per esempio: Langdon, Helen (2000). Caravaggio, A Life. Westview Press; Papa, Rodolfo (2002). Caravaggio. Firenze, Italia: Giunti. Volpi, Caterina (2002). Caravaggio nel IV Centenario della Cappella Contarelli: Convegno Internazionale di Studi, Roma 24-26 Maggio 2001. CAM). Il ciclo di dipinti che egli dedica all’apostolo Matteo è una esposizione non solo artistica, ma anche teologica della vita del santo, forse più questa che quello (nel senso che il significato è ben più in alto del significante). Le tre storie si riferiscono a tre momenti della vita del santo (non posso fare a meno di ricordare un ciclo di conferenze su Caravaggio e altri grandi pittori del Professor Papa che in passato ho avuto modo di seguire e che ha ispirato/suggerito alcune delle breve riflessioni che vado svolgendo): l’incontro con Gesù (la vocazione di san Matteo), la sua attività di evangelista (san Matteo e l’angelo) e il suo transito (il martirio di san Matteo). In questi tre dipinti l’autore ci offre una lettura di questi momenti che unisce l’altezza artistica alla speculazione teologica. Non è questo il posto per fare un commento particolareggiato di queste opere e non sarei io la persona probabilmente più adatta, ma vorrei solo indicare alcuni spunti di riflessione. Se si guarda la vocazione di san Matteo, come non farsi colpire da quella luce che segue il gesto “creatore” della mano di Gesù verso la figura che Caravaggio ha voluto in abiti contemporanei a lui, dell’apostolo Matteo. La luce della grazia divina tocca alcuni ma non altri in quel tavolo di una bettola qualunque. Da notare la figura dell’apostolo Pietro, simbolo della Chiesa, frapposto fra il Cristo e l’apostolo, simbolo della mediazione.
In Matteo e l’angelo, c’e’ tutto il discorso dell’ispirazione delle Sacre Scritture, in che modo Dio irrompe nella libertà dell’uomo, come la rispetta e come la guida. Di questo dipinto esisteva anche una versione precedente che fu però rifiutata, apparentemente per la rozzezza delle fattezze dell’apostolo. In questo dipinto precedente si vedeva (perché ora è andato perduto durante la seconda guerra mondiale) l’angelo che letteralmente guidava la mano dell’apostolo nella redazione del suo Vangelo, quasi come se la libertà dell’uomo fosse messa in dubbio da questo gesto. Come interviene Dio nella vita dell’uomo? A queste domande Caravaggio cerca di dirigere la nostra attenzione.
Nel Martirio ci colpisce quella figura di uomo al centro, il carnefice che è però, in una posizione più eretta, tremendamente simile al Michelangiolesco uomo della Creazione nel ciclo della Cappella Sistina. L’uomo da Dio creato diventa carnefice. Ecco il dramma della nostra umanità simboleggiato in questa tela.
E poi la luce: quel contrasto fra la luce e le tenebre che così colpisce nei dipinti di Caravaggio, come se l’uomo fosse sempre in lotta per emergere dall’oscurità che tanto racchiude di questo mondo e si protendesse con sempre nuovo slancio e sempre rinnovata fatica verso quello Splendor Paternae Gloriae che Sant’Ambrogio cantava in uno dei suoi inni più belli. La luce è uno degli elementi che più colpisce nei dipinti del nostro, quella stessa luce e tenebre di cui fu impastata la sua tempestosa vita, finita in una spiaggia come a voler afferrare il mare per l’ultima volta, simbolo di quell’infinito di cui aveva cercato i colori più intimi e segreti.
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