venerdì 21 febbraio 2020

Canto e memoria

Oggi ho avuto il piacere di incontrare e pranzare con Marcel Peres, animatore dell’Ensemble Organum, specializzato nell’esecuzione di musica antica, incluso il canto gregoriano e il canto romano antico, in un modo diverso e più “etnomusicologico” rispetto alla tradizione solesmense. È stata una conversazione affascinante, che ha toccato molti temi, una conversazione che sicuramente mi darà il modo di approfondire alcuni argomenti musicologici che comunque già erano presenti nella mia mente, in quanto io seguo il lavoro di questo musicista da più di vent’anni. Uno dei temi che si è toccato è quello del rapporto con la memoria. Noi sappiamo che anticamente, non essendoci notazione musicale, quello che veniva eseguito, veniva eseguito seguendo la memoria. Quindi, questo concetto di esecuzione del canto gregoriano come se i cantori avessero di fronte uno spartito, nel senso moderno, è fuorviante.
Racconto sempre un episodio che è accaduto molti anni fa, mentre seguivo la Messa in una chiesa di campagna. Durante la messa, i fedeli avevano eseguito alcuni canti di quelli del dopo concilio, canti comuni nei repertori di molte parrocchie. Ma alla fine le donne, contadine, cantarono un O bella mia speranza, con un tipo di melodia che avevano un inflessione e un andamento veramente popolari, con quel ritmo che non è esattamente metrico, ma che ha una sua logica interna. Io immagino che l’esecuzione di quel canto, sia stata diversa per ogni volta che veniva cantato, diremmo oggi spontanea. Non credo che gli esecutori si riferissero a nessuna fonte scritta per la loro esecuzione, ma usavano questa melodia che probabilmente le loro madri cantavano prima di loro e la variavano una infinità di volte. Come mi diceva Peres, oggi siamo abituati che a una nota scritta corrisponde un suono, ma anticamente non c’era questo. Anche i greci, nel loro canto, applicavano delle regole, nomoi, a melodie che erano strutture melodiche che potevano essere variate ad libitum. Non esisteva la figura del compositore che aveva il diritto di essere capito nelle sue intenzioni quando si eseguiva la sua musica, questa figura verrà molto più tardi, già nel secondo millennio dell’era cristiana.
Un contributo di Giulia Pratelli su exagere.it dice: “Il rapporto tra musica e memoria è infatti molto stretto e si svolge non solo sul piano personale, ma anche su quello collettivo: la musica svolge una funzione importantissima anche per la memoria sociale, diventando una vera a propria fonte di informazioni storiche, un prezioso strumento per il ricordo e la ricostruzione di avvenimenti, usanze, sentimenti diffusi in particolari periodi del passato. (...) Da sempre, attraverso la musica sono stati riportati e tramandati numerosi eventi. Facendo un salto indietro nel tempo, potremmo ricordare la figura dei bardi, i cantori itineranti celtici, che, nel XV secolo, cantavano leggende ma anche grandi imprese, testimonianze di episodi realmente accaduti (molto spesso, sicuramente, ingigantendoli per renderli più accattivanti). Il loro compito fondamentale era infatti quello di raccontare cosa fosse accaduto in terre lontane al fine di informare e diffondere le notizie, anche a coloro che per motivi geografici non potevano venire autonomamente a conoscenza dell’accaduto. Anche in epoche molto più recenti le canzoni sono state utilizzate per raccontare avvenimenti, diffondere ideologie e pensieri politici, idee di rivolta, di ribellione, grazie anche al maggior coinvolgimento emotivo che deriva dall’unione tra le parole e la musica, dal canto corale. È ad esempio quello che è accaduto nella seconda metà del XIX secolo negli Stati Uniti d’America del Sud, con la nascita del blues. Senza avere in questa sede modo e tempo per approfondire gli aspetti musicali di questo importantissimo genere, possiamo brevemente ricordare quanto accadde intorno alla fine del XVIII secolo, quando ebbe inizio la deportazione degli schiavi, dalle colonie africane al territorio americano, affinché svolgessero lavori pesanti, spesso in condizioni disumane, degradanti. Fu proprio l’incontro tra la musica, in particolar modo il canto, e il sentimento di oppressione, di angoscia e di dolore a dare origine ad un nuovo genere musicale che avrebbe avuto nel tempo una fortuna incredibile. I canti blues, inizialmente accompagnati dal solo battito delle mani, nacquero proprio dalla consapevolezza degli schiavi africani di essere diventati neri americani, come grida di dolore, lamenti che denunciavano la fatica e la mortificazione determinate dalle condizioni di vita e di lavoro nei campi. La musica era un elemento essenziale della vita degli schiavi africani: caratterizzava i momenti di preghiera, di svago ma anche di lavoro. Fu naturale che in essa convergesse la necessità di raccontare la propria condizione svantaggiata ed esprimere con forza la disperazione che da essa derivava, lasciando sempre uno spazio per la speranza di un domani migliore, soprattutto dopo la conversione al cristianesimo che determinò l’incontro e la contaminazione tra la particolare sensibilità musicale degli schiavi neri e gli elementi biblici, dando origine alla nascita degli spiritual. Anche in seguito all’emancipazione degli schiavi dopo la vittoria degli Stati del Nord nel 1865, la condizione dei neri americani rimase critica e il blues mantenne la sua natura di canto di dolore e di speranza, utilizzato dai neri americani per esprimere e raccontare la condizione di svantaggio in cui continuavano a trovarsi, essendo vittime di discriminazione e dovendo lottare per l’affermazione dei propri diritti”. Ecco, proprio questo esempio del blues, del jazz, ci fa considerare nel modo appropriato il ruolo della memoria. Gli “spartiti” di jazz o blues, sono canovacci; sappiamo quanto sia importante il ruolo dell’improvvisazione. Gaetano Manara in Modelli e trame dell’improvvisazione musicale dice: “L’improvvisazione artistica è una prassi estetica di notevole interesse. Essa, infatti, vive la dimensione della spontaneità più di qualsiasi altra forma artistica. Se l’arte è in grado di farci comprendere qualcosa sull’uomo, non ovviamente dal punto di vista del pensiero matematico-scientifico, ma dal punto di vista di un modo di pensare diverso che è quello estetico, ecco che l’improvvisazione dirà ciò che dell’uomo aderisce di più al suo animo. A differenza di una qualsiasi operazione artistica la cui genesi può avere anche una notevole durata e non avviene sotto la pressione di un pubblico, l’improvvisazione vivendo nell’immediatezza, fa cadere tutti i filtri e i ripensamenti che si possono frapporre tra l’artista e le sua opera nel corso di un lungo periodo decisionale. L’improvvisazione ci parla della spontaneità dell’essere umano”. Ecco, è esattamente questa dimensione che abbiamo perduto, forse per sempre.


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