Entrando nel tempo di Quaresima, siamo portati a riflettere sulle nostre tante mancanze e sulle prove che stiamo vivendo in questo tempo storico, come quella dell’incipiente epidemia dovuta al covid-19. Per questo motivo, per non affogare nella quotidianità, mi volgo al 1859, alla lettera pastorale per la Quaresima dell’allora vescovo di Saluzzo, Giovanni Antonio Gianotti (1764-1863). Nel sito della diocesi di Saluzzo troviamo queste note biografiche sul presule: “Ricevette l’ordinazione episcopale il 26 maggio 1833 dall’arcivescovo di Torino mons. Franzoni, assistito dai conconsacranti: il vescovo di Ivrea mons. Chiaravalle e di Susa mons. Cirie Per il suo zelo e la sua dottrina fu preposto alla Regia Università di Sassari, e ancor più diede prova di generosa dedizione agli ammalati e diseredati durante il colera del 1835. Per motivi di salute mons. Gianotti, nel 1836, dovette rinunciare alla diocesi di Sassari, dove spese il meglio di se stesso. Rientrato nella città natale, poté ristabilirsi. Nuovamente su proposta del Re, il Papa, il 19 giugno 1837 lo nominò vescovo di Saluzzo, dove fece il suo ingresso il 6 agosto 1837. Un vasto campo di apostolato si apriva a mons. Gianotti che tanta esperienza aveva acquisito negli anni precedenti. La diocesi di Saluzzo lo accolse con esultanza, desiderosa di seguire i suoi indirizzi pastorali. Il 28 maggio 1840 indisse la prima visita pastorale con un programma ben definito. Il 9 giugno dello stesso anno, indirizzò ai cittadini saluzzesi un particolare invito a sostenere la scuola cattolica, per la quale invitava: “i Fratelli delle scuole della dottrina cristiana” ad aprire, con il contributo dei cittadini, una scuola d’ispirazione cristiana, così motivandola: “per l’educazione della gioventù povera dall’età di trenta mesi ai quattordici o quindici anni”. Diffuse e promosse la conoscenza delle iniziative civili, come la applicazione del sistema metrico decimale, le scuole serali e domenicali. Nel 1848 sostenne apertamente la costituzione albertina e fu tenace assertore della validità del metodo elettorale, invitando i fedeli ad andare a votare, perché venissero eletti alle cariche pubbliche uomini capaci e onesti. Il 3 novembre del 1841, inaugurò solennemente l’anno scolastico, aperto sei mesi prima dai: “Fratelli delle Scuole Cristiane”. Nel frattempo i missionari di San Vincenzo avevano fatto richiesta al vescovo di stabilirsi nel territorio della parrocchia di Scarnafigi. Mons. Gianotti, in data 20 maggio 1843, scriveva ai sacerdoti della missione di San Vincenzo de’ Paoli: “… Non solamente acconsentiamo colla più viva soddisfazione dell’animo nostro che la congregazione dei Sacerdoti della Missione venga a stabilirsi nella parrocchia di Scarnafigi, ma n’affrettiamo coi più fervidi voti il momento avventurato, pronti ad abbracciare i pii e zelanti sacerdoti della medesima quali più cari e abili cooperatori del nostro ministero, nella cultura del clero e nella santificazione dell’anima…”. L’anno seguente, il 19 marzo, benedisse solennemente la prima pietra della chiesa, che fu terminata nel 1847 insieme alla grande casa dove i sacerdoti vi si stabilirono nello stesso anno. Il vescovo credette opportuno di avvalersi di questo complesso anche per il clero della diocesi e per gli aspiranti al sacerdozio. Pertanto pregò i sacerdoti della Missione di aprire una scuola di teologia morale per i neo-sacerdoti”. Insomma, un vescovo molto attivo per il suo gregge.
Nella sua lettera pastorale per la Quaresima del 1859 ci dice: “Non vi spaventate al nome di mortificazione; ché io non intendo già, che vi armiate la destra di flagelli, o di ciliziii lembi, ma di parlarvene con quella prudente discrezione, la quale, mentre nulla toglie alla severità della legge, è pur conforme alla soavità del giogo di Cristo. Convien pur dirlo, che alla sola sapienza celeste ed alla grazia di Gesù Cristo è dato di vedere bello, e sentir buono ciò che naturalmente fa orrore ai sensi, e tale si è della mortificazione evangelica. L‘uomo animale e terrestre non ne può comprendere la bellezza, né gustarne la soavità: eppure pell’uomo cristiano, e spirituale è la sorgente d’ogni bene, poiché all’impero della ragione illuminata dalla fede ella assoggetta tutte le disordinate inclinazioni della corretta natura, ed è per questo che dai Ss. Padri viene appellata freno delle passioni, odio di noi stessi, mistica croce, morte volontaria. É il freno delle passioni perché ne trattiene l’impeto, ed il furore: è un odio di noi stessi perché esercita una severa giustizia sopra di noi peccatori: è una mistica croce, perché su d’essa dobbiamo appendere la nostra carne colle sue concupiscenze, e coi Vizii, che fomentano la sua ribellione alle leggi dello spirito: è finalmente una morte volontaria, perché fa morire in noi gli sregolati desiderii, che si oppongono al voler santo d’Iddio”. Mortificazione… Come questa parola ci sembra oggi così lontana dal nostro panorama spirituale e culturale. Sembra che essa non corrisponda alle dignità dell’uomo moderno, un uomo che ha solo diritti ma non doveri. Ecco che questa lettera pastorale che ci giunge da secoli scorsi, ci fa capire che invece proprio nella capacità di mortificare la propria carne è il segreto della vittoria finale. Ci dice il vescovo che la mortificazione è come una mistica croce, dove noi mettiamo la nostra carne in modo da meritargli la ricompensa tanto desiderata. All’inizio, esso ci dice che naturalmente noi non dobbiamo desiderare la mortificazione come se essa fosse un piacere, come qualcosa di cui rallegrarsi, ma come qualcosa di necessario per raffrenare le nostre passioni e i nostri vizi. Come siamo immersi nel nostre passioni nei nostri vizi? Certamente, parlando per me stesso, non posso che constatare la mia totale indegnità di Cristiano. Il vescovo prosegue: “La sola mortificazione può smorzare questo fuoco, e indebolire l’indomita concupiscenza, privandola del pascolo di quei piaceri, che appetisce, e macerando la carne, in cui ha sede, vita e forza”. Queste parole oggi sembrano fuori tempo, non più adeguate per l’uomo moderno. In realtà, pure se naturalmente esse corrispondono a una spiritualità di secoli passati, possono ancora dirci tanto oggi. In effetti, sappiamo benissimo che spesso il peccato è come un fuoco, come qualcosa che ci brucia perché noi, invece di spegnerlo, continuiamo ad alimentarlo.
Ma per ottenere frutti dalla mortificazione, ci avverte il vescovo, non basta il pentimento interiore: “Che se con quelle parole Iddio vuole il cuore intendeste, che da voi esige soltanto l’interna mortificazione e non l’esterna, togliete, io vi dirò, la corteccia ad un albero, e state certi, che ne dissaccherà ben presto il midollo; in simil guisa togliete al cristiano la esterna mortificazione del corpo, e vedrete che perderà ben presto l’interiore del cuore, giacché l’esterna non solo conserva l’interno, ma la produce”. Che grande saggezza nelle parole del vescovo. Gli atti esterni di mortificazione, ci aiutano a ricomporre anche l’interno squilibrio del nostro animo, in preda a passioni, vizi, turpitudini. Io diffido moltissimo quei cattolici che pretendono di essere “buone persone“. Per me, il punto di partenza per la vera conversione, è ammettere la propria indegnità, il proprio essere peccatore. Tempo fa, quando fu chiesto a papa Francesco di definirsi, egli disse: “sono un peccatore“. Ecco, mi è piaciuto molto questa risposta, perché penso sia profondamente vera. Certo la grazia di Dio sempre ci attende come acqua zampillante, ma non può bere chi non sa di aver sete.
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