mercoledì 17 giugno 2020

La difficoltà dell’abbandono



Abbandonarsi è una cosa difficile, direi a volte estremamente complessa. Quante volte sentiamo dire che dobbiamo abbandonarci a Dio, ma vi assicuro che tra il dire e il fare...e questo lo si capisce nel momento della prova, quando si fa i conti con una realtà che facciamo fatica a controllare.
A volte viviamo imprigionati da paure, da ansie, da tensioni che ci dilaniano dentro e che ci rendono irrequieti, sempre impauriti per quello che potrebbe accaderci. La vita non sempre ci sorprende positivamente, facciamo anche incontri che non sono buoni per noi. Ci capitano circostanze in cui ci è chiesto di lasciare andare quello che siamo e metterlo nelle mani di un altro. Non è facile, anzi è molto difficile, talvolta veramente arduo.
Eppure se pensiamo che in fondo siamo nulla, tutto diviene più semplice. Siamo nulla, veramente nulla.

martedì 12 maggio 2020

3 ragioni per cui un laico potrebbe guidare la congregazione per il culto divino (e 1, ma importante, per cui è meglio di no)

In questi giorni ho letto da qualche parte della proposta per cui il successore del Cardinale Robert Sarah alla guida della congregazione per il culto divino, quando il prelato andrà in pensione, potrebbe essere un laico. Ovviamente si parla soltanto di idee che lasciano il tempo che trovano, ma non sarà inutile, come esercizio di scuola, rifletterci sopra. Voglio dare 3 ragioni per cui questo potrebbe essere possibile ed una, ma importante, per cui è meglio di no.
  1. I laici possono essere molto più ortodossi di sacerdoti, vescovi o cardinali (e fermiamoci qui). Io dico sempre che spesso è meglio leggere autori cattolici laici che, quando ben formati, sono certamente più utili di tanti prelati che, anche per ragioni di sopravvIvenza, devono ripetere la stessa narrativa per compiacere i superiori. Certamente noi siamo grati che in questo momento il Cardinale Sarah sia alla guida del culto divino, ma sappiamo come in un momento di confusione così grande la salvezza non verrà dal clero, perché troppo coinvolto con il sistema clericale di cui fa parte e che in larghi settori rema contro l’ortodossia dottrinale, ma verrà dai laici, molto più indipendenti. Quindi dal punto di vista dell’ortodossia, non avrei paura di avere un laico a capo di una congregazione.
  2. L’amore per la liturgia può essere più grande in un laico che in tanti sacerdoti. Questo fatto l’ho potuto osservare in tante occasioni, in cui molti del clero si servono della liturgia per esibirsi tra la disapprovazione di laici ben informati. L’amore della liturgia non arriva con l’ordinazione sacerdotale, malgrado la frequentazione quotidiana con essa. A questo amore e apprezzamento si deve essere formati, e purtroppo negli ultimi decenni questa formazione all’amore per la bellezza e dignità della liturgia è stata quantomeno carente nei seminari e negli istituti di formazione. Si potrebbe pensare che un laico non può capire la liturgia perché non può celebrarla, ma sarebbe come dire che un prete non può parlare di sessualità perché non dovrebbe...vabbeh, avete capito. O un medico non può parlare di una malattia se non l’ha avuta. Naturalmente il laico che ho in mente dovrebbe essere profondamente edotto nella liturgia e nel suo splendore più autentico.
  3. Il laico può essere indipendente, se lo vuole. Ora, qui molti penseranno ad alcuni laici che conoscono e che lavorano in Vaticano o per qualche ufficio curiale e potranno osservare che sono più clericalizzati dei sacerdoti. Sarebbe una giusta osservazione. Infatti ho detto che può essere indipendente...se lo vuole. Purtroppo, molti pensano solo alla carriera, al prestigio, alla posizione, ai soldi che ne derivano. Non ci facciamo illusioni, questo è l’ambiente. Se dipendi economicamente dal tuo datore di lavoro, sia il Vaticano o altro, difficilmente puoi ribellarti. Ma per il laico, a mio avviso, se ben motivato, è certamente più semplice coltivare spazi di libertà interiore che possono essere manifestati quando si lavora con superiori intelligenti.
Ora, il motivo per cui tutto quello che ho detto è meglio che non accada. Ed esso è semplice. Un laico alla guida di una congregazione, specialmente se non acquiescente alla narrativa dominante, verrebbe stritolato dal sistema clericale. Quante volte ho sentito dire che era meglio che alcune cappelle musicali erano dirette da membri del clero, pur se di mediocre valore musicale, in quanto potevano sopravvivere meglio alle traversie causata dai Capitoli o dai superiori ecclesiastici. Non ci illudiamo, questa è la Chiesa, il laico è sempre al di fuori di un certo sistema che cerca solo di preservarsi. 

venerdì 24 aprile 2020

Il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo

Ci hanno detto che la virtù massima della prudenza consiste nel farsi gli affari propri, vivi e lascia vivere, non ti immischiare in cose che poi possono farti avere dei problemi. Ma questo, in fondo, non è un buon insegnamento di vita. Il pensatore Edmund Burke diceva che “perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione”. Ecco, se si vuole che il male avanzi, basta adottare proprio quella strategia di cui dicevamo prima.
Invece, ci insegna il grande pensatore brasiliano Plinio Côrrea de Oliveira, “il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo”. Anzi, per citare tutta la frase e dargli il suo contesto, essa dice: “Equilibrio non è la posizione di un uomo seduto pacatamente su una poltrona. Il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo, mentre realizza con la massima intensità tutte le sue potenzialità“. Cioè, l’equilibrio non è un atteggiamento passivo ma un atteggiamento dinamico, è l’atteggiamento di chi lotta. Quindi l’equilibrio non è un atteggiamento da tenere verso gli altri, ma verso se stessi, un atteggiamento da meritare e da guadagnare cercando di prepararsi all’agone del combattimento spirituale.
Aveva capito questo Lorenzo Scupoli, che nel suo Combattimento spirituale diceva: “Poiché sempre piacquero e piacciono tuttora a vostra Maestà i sacrifici e le offerte di noi mortali quando da puro cuore vengono offerti a gloria vostra, io presento questo trattatello del Combattimento spirituale dedicandolo alla divina vostra Maestà. Né mi tiro indietro perché questo trattato è piccolo: infatti ben si sa che voi solo siete quell'alto Signore che si diletta delle cose umili e disprezza le vanità e le pretese del mondo. E come potevo io senza biasimo e senza danno dedicarlo ad altra persona che alla vostra Maestà, Re del cielo e della terra? Quanto insegna questo trattatello tutto è dottrina vostra, avendoci voi insegnato che, non confidando più in noi stessi, confidiamo in voi, combattiamo e preghiamo. Inoltre se ogni combattimento ha bisogno di un capo esperto che guidi la battaglia e animi i soldati, i quali tanto più generosamente combattono quanto più militano sotto un invincibile capitano, non ne avrà forse bisogno questo Combattimento spirituale? Voi dunque eleggemmo, Gesù Cristo (noi tutti che già siamo risoluti a combattere e a vincere qualunque nemico), per nostro Capitano: voi che avete vinto il mondo, il principe delle tenebre, e con le piaghe e la morte della vostra sacratissima carne avete vinto la carne di tutti quelli che hanno combattuto e combatteranno generosamente”. Quindi, coloro che cercano l’equilibrio per prepararsi alla battaglia, hanno come capo supremo il Nostro Signore Gesù Cristo, secondo questo maestro di spiritualità. Inoltre egli aggiunge: “E perché, aspirando tu all'altezza di tanta perfezione, devi fare continua violenza a te stessa per espugnare generosamente e annullare tutte le voglie, grandi o piccole che siano, necessariamente conviene che con ogni prontezza d'animo ti prepari a questa battaglia: infatti la corona non si dà se non a quelli che combattono valorosamente. Siccome tale battaglia è più di ogni altra difficile (poiché combattendo contro di noi, siamo insieme combattuti da noi stessi), così la vittoria ottenuta sarà più gloriosa di ogni altra e più cara a Dio.
Se tu attenderai a calpestare e a dar morte a tutti i tuoi disordinati appetiti, desideri e voglie ancorché minime, renderai maggior piacere e servizio a Dio che se, tenendo alcune di quelle volontariamente vive, ti flagellassi fino al sangue e digiunassi più degli antichi eremiti e anacoreti o convertissi al bene migliaia di anime. Sebbene il Signore in sé gradisca più la conversione delle anime che la mortificazione di una voglietta, nondimeno tu non devi volere né operare altro se non quello che il medesimo Signore da te rigorosamente ricerca e vuole. Ed egli senza alcun dubbio si compiace di più che tu ti affatichi e attenda a mortificare le tue passioni che se tu, lasciandone anche una avvedutamente e volontariamente viva in te, lo servissi in qualunque cosa sia pure grande e di maggior importanza. Ora che tu vedi, figliuola, in che consiste la perfezione cristiana e che per acquistarla devi intraprendere una continua e asprissima guerra contro te stessa, c'è bisogno che ti provveda di quattro cose, come di armi sicurissime e necessarissime, per riportare la palma e restare vincitrice in questa spirituale battaglia. Queste sono: la diffidenza di noi stessi, la confidenza in Dio, l'esercizio e l'orazione”. Insomma, come detto, la battaglia più grande che ogni cavaliere deve affrontare è contro il nemico più feroce, se stessi. E a volte, nascondiamo questa battaglia professando alti ideali e nobili intendimenti. Ma in realtà cerchiamo di sfuggire alla battaglia mortale contro i nostri vizi, i nostri desideri, i nostri peccati. Ecco perché bisogna concepire la vita come una battaglia, che ci porta prima di tutto contro noi stessi ma anche contro le impronte del male nella storia. Dobbiamo essere pronti a combattere, contro una società che sovverte i valori naturali e che ci insegna che dobbiamo chiamare bianco il nero e nero il bianco. Il combattimento contro questa società è doloroso, richiede sacrifici enormi e ci invita ad accettare mortificazioni immense, anche e soprattutto a livello personale. Non sentiamoci buoni, non sentiamoci a posto perché ci buttiamo in questa battaglia; non facciamo che corrispondere a quello che ci richiede la nostra vocazione.
“Il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo”, non dimentichiamolo mai, non pensiamo che possiamo sfuggire da questa idea per coltivare una vita amorfa, seduti sulla nostra poltrona a fare nulla, lasciando che il mondo si mangi la realtà per sostituirla ad una realtà fittizia, che non esiste ma che fa comodo ai signori che manovrano dietro le quinte per sovvertire la natura. Se non facciamo nulla, se non combattiamo, siamo colpevoli come coloro che sono dalla parte avversa a noi. Il vero equilibrio non è lasciare andare le cose, ma è fatica, concentrazione, lotta. Non dobbiamo temere le delusioni, le amarezze, le sconfitte. Anzi, specie in un mondo in cui tutto lotta contro il bene, abbracciamo tutte le nostre sconfitte come fossero il bene più prezioso.



mercoledì 22 aprile 2020

L’acqua che tutto spegne, ravvivava sempre più il fuoco

Ci piace a volte vivere nella menzogna, ci fa comodo, lo troviamo piacevole. Abbiamo già detto come sarà la verità a liberarci, ma per arrivare alla verità il cammino è lungo, lungo e difficile. A volte ci sono persone che non ci arrivano in una vita intera. E anche chi vuole arrivarci, per scalare la montagna deve passare tanti ostacoli, tante delusioni. E spesso, come i cavalieri ci insegnano, il nemico più grande non è di fronte a te, ma dentro di te. 
Una frase dal libro della Sapienza (16, 17) mi è sembrata sempre molto significativa: “l’acqua che tutto spegne, ravvivava sempre più il fuoco”. Io l’ho interpretata nel senso che le cose che più dovrebbero placarci, spesso le usiamo per aumentare il problema che devono risolvere. Dico subito che la mia è una interpretazione che esula dal contesto di quel capitolo, in cui questa frase ha un senso più positivo, ma questa mia forzatura interpretativa mi serve per esprimere qualcosa che penso importante. Facciamo l’esempio della religione. Essere religiosi dovrebbe essere considerata una cosa buona, noi pensiamo che avere un atteggiamento religioso nella vita è il bene più grande. Ma è sempre così? No, non sempre, perché da alcuni la religione è usata come schermo per nascondere disagi psicologici profondi. È bene che chi ha disagi di ogni tipo cerchi consolazione nella religione, ma non usandola per fornirsi di una maschera di fronte agli altri. Ci sono le religiosità patologiche, le persone che usano la religione come userebbero gli psicofarmaci. Ecco perché bisogna aiutare queste persone a cercare il volto autentico di Dio, non la caricatura che serve a farli stare apparentemente meglio.
Benedetto XVI, nell’udienza del 16 gennaio 2013 tra l’altro diceva: “Vorrei soffermarmi su questo “rivelare il volto di Dio”. A tale riguardo, san Giovanni, nel suo Vangelo, ci riporta un fatto significativo che abbiamo ascoltato ora. Avvicinandosi la Passione, Gesù rassicura i suoi discepoli invitandoli a non avere timore e ad avere fede; poi instaura un dialogo con loro nel quale parla di Dio Padre (cfr Gv 14,2-9). Ad un certo punto, l’apostolo Filippo chiede a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Filippo è molto pratico e concreto, dice anche quanto noi vogliamo dire: “vogliamo vedere, mostraci il Padre”, chiede di “vedere” il Padre, di vedere il suo volto. La risposta di Gesù è risposta non solo a Filippo, ma anche a noi e ci introduce nel cuore della fede cristologica; il Signore afferma: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In questa espressione si racchiude sinteticamente la novità del Nuovo Testamento, quella novità che è apparsa nella grotta di Betlemme: Dio si può vedere, Dio ha manifestato il suo volto, è visibile in Gesù Cristo. In tutto l’Antico Testamento è ben presente il tema della “ricerca del volto di Dio”, il desiderio di conoscere questo volto, il desiderio di vedere Dio come è, tanto che il termine ebraico pānîm, che significa “volto”, vi ricorre ben 400 volte, e 100 di queste sono riferite a Dio: 100 volte ci si riferisce a Dio, si vuol vedere il volto di Dio. Eppure la religione ebraica proibisce del tutto le immagini, perché Dio non si può rappresentare, come invece facevano i popoli vicini con l’adorazione degli idoli; quindi, con questa proibizione di immagini, l'Antico Testamento sembra escludere totalmente il “vedere” dal culto e dalla pietà. Che cosa significa allora, per il pio israelita, tuttavia cercare il volto di Dio, nella consapevolezza che non può esserci alcuna immagine? La domanda è importante: da una parte si vuole dire che Dio non si può ridurre ad un oggetto, come un'immagine che si prende in mano, ma neppure si può mettere qualcosa al posto di Dio; dall’altra parte, però, si afferma che Dio ha un volto, cioè è un «Tu» che può entrare in relazione, che non è chiuso nel suo Cielo a guardare dall’alto l’umanità. Dio è certamente sopra ogni cosa, ma si rivolge a noi, ci ascolta, ci vede, parla, stringe alleanza, è capace di amare. La storia della salvezza è la storia di Dio con l'umanità, è la storia di questo rapporto di Dio che si rivela progressivamente all’uomo, che fa conoscere se stesso, il suo volto”. Ecco, spesso noi preferiamo sostituire a questo volto un simulacro, cerchiamo consolazione in certi aspetti della religione che ci fanno sentire bene, ma che non ci fanno in definitiva stare bene.
Da musicista, devo dire che questo accade nella musica, dove molte persone non seguono la musica per compiere un cammino interiore, ma solo per mascherare ben altri problemi. Quanti ce ne sono! Abbiamo la tendenza ad usare cose buone in un modo improprio, per nascondere altre cose contro cui abbiamo difficoltà a combattere. Essere sinceri con se stessi, abitare nella verità, è un percorso di tutta una vita, e ci può costare anche l’isolamento sociale, l’incomprensione nella nostra stessa famiglia. Ma abitare nella menzogna? Cosa si prova a vivere nella menzogna per tutta la vita? Alcuni non se ne rendono neanche conto.
Dobbiamo fare in modo che quell’acqua che tutto spegne non serva a ravvivare il fuoco, ma a dissetarci, a fare in modo che possiamo sentirci profondamente ristorati e con il coraggio di ricominciare sempre il cammino. Nei salmi ci si offre l’immagine della cerva che anela ai corsi d’acqua. Ecco, dobbiamo coltivare quel desiderio per l’acqua che disseta, non per quella che serve a ravvivare il fuoco.
Guardate che il cammino alla consapevolezza spirituale è doloroso, perché bisogna liberarsi di atteggiamenti interni ed esterni che abbiamo coltivato per tutta una vita. Se abbiamo sempre camminato male, poi ci costerà camminare correttamente, perché non lo abbiamo mai sperimentato. E quindi forse continueremo a zoppicare, ma lo faremo perseguendo quanto è bello, buono e vero. Diceva sant’Agostino che è meglio zoppicare sulla via giusta che correre su quella sbagliata. Bisogna cercare di intraprendere un cammino di verità su noi stessi, accettando le sofferenze che ne derivano, perché solo questo ci permetterà di riappropriarci del nostro essere più intimo.




lunedì 20 aprile 2020

La verità vi farà liberi

Viviamo in un mondo in cui mostrare una facciata di comodo è spesso l’unico modo di sopravvivere, a volte è anche necessario. Non sempre siamo nelle condizioni di poter dire esattamente quello che pensiamo, senza il timore che le nostre parole possano causare più danni di quelli che intendono risolvere. Eppure il rischio di comportamenti del genere è molto elevato, in quanto a volte cominciamo a vivere in una realtà quasi parallela, in una realtà di finzione che a noi sembra quasi reale. Quante persone vivono nella finzione, quante persone si costruiscono un mondo comodo protetti (o almeno così loro credono) da titoli accademici, prestigio mondano, autorità e potere. Eppure ci viene detto che “la verità vi farà liberi”. Siamo qui nel vangelo di Giovanni 8, 31-42: “Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!». Gli risposero: «Il nostro padre è Abramo». Rispose Gesù: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l'ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato”. Il dialogo fra Gesù e i Giudei ci fa venire in mente che è vero quel detto che dice che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Essi preferiscono vivere nella loro realtà senza interrogarsi se le parole di quel Rabbi potessero avere qualche parvenza di verità.
Perché la verità è spesso scomoda, ci scuote, ci sposta dai nostri pregiudizi e dalle nostre assunzioni. La verità a volte non è simpatica, comoda, confortevole. Essa può abitare in persone che ci sembrano inadeguate. A volte essa è urtante, fastidiosa, respingente. Eppure non c’è cosa più alta della verità, senza la quale continuiamo ad abitare nelle tenebre.
Sant’Agostino, in La Trinità (8,2) afferma: “Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio è Verità. È scritto infatti che Dio è luce (1Gv 1,5), non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos'è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione?”. Ci dice il grande pensatore che non dobbiamo cercare di sapere cosa è la verità; ma cosa significa? Significa che la verità è un qualcosa che sentiamo, più che comprendiamo. Il peso della verità tutta intera è troppo oneroso per le nostre povere forze e quindi dobbiamo contentarci di partecipare ad essa ma senza la pretesa di possederla, come se la verità fosse sul cloud, riprendendo una metafora tecnologica. San Bonaventura da Bagnoregio ha detto: “È insito nell'anima l'odio della falsità; ma ogni odio nasce dall'amore, perciò è molto più radicato nell'anima l'amore della verità e specialmente di quella verità per la quale l'anima è stata fatta“. Ecco perché noi riconosciamo la verità istintivamente anche se non sempre siamo portati ad aderirvi spontaneamente, in quanto la verità, come detto sopra, costa e ci è spesso difficile da sopportare. Spesso aderire alla verità non ci fa vivere bene, ci causa di essere rigettati e respinti, ma senza verità siamo nella falsità e questo è quanto corrode la nostra anima nel modo più pericoloso. 
San Tommaso d’Aquino, riprendendo Aristotele, diceva che la verità è adaequatio rei et intellectus, l’adeguarsi dell’intelletto alla realtà della cosa. La verità quindi non è una creazione ma un abbandonarsi, un lasciarsi penetrare dal senso che già è lì presente. La verità è come la scultura nell’idea di Michelangelo, già presente in nuce nel marmo grezzo. Ma abbandonarsi alla verità è difficile, perché ci viene naturale fare resistenza, difenderci, cercare di sfuggirci. Preferiamo vivere nella schiavitù perché, come ho detto, la verità è difficile da sopportare. Essa porta fastidio, ci interroga continuamente, ci costringe a cambiare, a vedere dentro noi stessi. Ecco perché a volte coloro che riescono a portare vanti dei barlumi di verità sono strani, bizzarri, eccentrici. Essi per primi devono scontare il peso di quello che portano, spesso senza neanche saperlo. La verità non ê un pranzo di gala, ma una scalata su una montagna altissima, ma una scalata dopo la quale puoi veramente assaporare cieli e terre nuove.