sabato 29 febbraio 2020

Federico Borromeo e l’epidemia di peste nel nord Italia

Purtroppo, sappiamo come virus e batteri, sono sempre intorno a noi, sono delle compagnie non gradevoli ma con cui conviviamo praticamente quotidianamente. Alcuni di questi sono certamente innoqui, mentre altri ci fanno molto spaventare e molto riflettere. Prendiamo ad esempio l’ultima epidemia, quella che stiamo vivendo adesso, quella dovuta al famoso covid-19, chiamato più fare familiarmente come “coronavirus“. Il modo in cui questa epidemia è stata affrontata, specie dalla stampa, la fa sembrare quasi un ritorno della peste che uccise più di 1 milione di persone nella Milano del XVII secolo, quella peste che è stata raccontata magistralmente da Alessandro Manzoni ne “I promessi sposi“. In questo romanzo, sono presenti molti temi, come quello dell’amore, della provvidenza, della brama di possesso, ma certamente anche il tema legato alla descrizione di circostanze storiche, come quella dell’epidemia della peste, è un elemento importante che ha decretato a questo romanzo il successo che tuttora detiene. In effetti, proprio la stampa ci ha informato che la gente è tornata a leggere molto questo romanzo in questi giorni, insieme a “La peste”, di Albert Camus.
Naturalmente, questa circostanza straordinaria, a portato a galla anche le tensioni che esistono nell’ambito ecclesiale, non poche polemiche ci sono state per la gestione di questa emergenza da parte di alcune diocesi, come il discorso della sospensione o meno delle Messe e la sua opportunità. Certo sono temi delicati, che hanno molte sfaccettature che è difficile affrontare in poche righe. Allora, proprio riprendendo dal romanzo di Manzoni, mi piace qui portare in primo piano la figura del vescovo Federico Borromeo e la descrizione che ne fa il romanzo proprio quando affronta il tema della peste. Federico, come lo chiama il romanziere, diede esempio di grandi doti pratiche e spirituali: “Trovo che il cardinal Federigo, appena si riseppero i primi casi di mal contagioso, prescrisse, con lettera pastorale a’ parrochi, tra le altre cose, che ammonissero più e più volte i popoli dell’importanza e dell’obbligo stretto di rivelare ogni simile accidente, e di consegnar le robe infette o sospette: e anche questa può essere contata tra le sue lodevoli singolarità.”.  Poi, parla di una richiesta fatta al Borromeo: “Insieme con quella risoluzione, i decurioni ne avevan presa un’altra: di chiedere al cardinale arcivescovo, che si facesse una processione solenne, portando per la città il corpo di san Carlo. Il buon prelato rifiutò, per molte ragioni. Gli dispiaceva quella fiducia in un mezzo arbitrario, e temeva che, se l’effetto non avesse corrisposto, come pure temeva, la fiducia si cambiasse in iscandolo. Temeva di più, che, se pur c’era di questi untori, la processione fosse un’occasion troppo comoda al delitto: se non ce n’era, il radunarsi tanta gente non poteva che spander sempre più il contagio: pericolo ben più reale2. Chè il sospetto sopito dell’unzioni s’era intanto ridestato, più generale e più furioso di prima”. Insomma, anche il buon vescovo doveva far conto con le contingenze pratiche, e non aumentare il pericolo che il contagio potesse diffondersi. Eppure non potè molto nel frenare la psicosi, che al tempo era probabilmente ben giustificata: “Nè tali cose accadevan soltanto in città: la frenesia s’era propagata come il contagio. Il viandante che fosse incontrato da de’ contadini, fuor della strada maestra, o che in quella si dondolasse a guardar in qua e in là, o si buttasse giù per riposarsi; lo sconosciuto a cui si trovasse qualcosa di strano, di sospetto nel volto, nel vestito, erano untori: al primo avviso di chi si fosse, al grido d’un ragazzo, si sonava a martello, s’accorreva; gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione. Così il Ripamonti medesimo. E la prigione, fino a un certo tempo, era un porto di salvamento“. Così i decurioni tornarono all’assalto: “Ma i decurioni, non disanimati dal rifiuto del savio prelato, andavan replicando le loro istanze, che il voto pubblico secondava rumorosamente. Federigo resistette ancor qualche tempo, cercò di convincerli; questo è quello che potè il senno d’un uomo, contro la forza de’ tempi, e l’insistenza di molti. In quello stato d’opinioni, con l’idea del pericolo, confusa com’era allora, contrastata, ben lontana dall’evidenza che ci si trova ora, non è difficile a capire come le sue buone ragioni potessero, anche nella sua mente, esser soggiogate dalle cattive degli altri. Se poi, nel ceder che fece, avesse o non avesse parte un po’ di debolezza della volontà, sono misteri del cuore umano. Certo, se in alcun caso par che si possa dare in tutto l’errore all’intelletto, e scusarne la coscienza, è quando si tratti di que’ pochi (e questo fu ben del numero), nella vita intera de’ quali apparisca un ubbidir risoluto alla coscienza, senza riguardo a interessi temporali di nessun genere. Al replicar dell’istanze, cedette egli dunque, acconsentì che si facesse la processione, acconsentì di più al desiderio, alla premura generale, che la cassa dov’eran rinchiuse le reliquie di san Carlo, rimanesse dopo esposta, per otto giorni, sull’altar maggiore del duomo. Non trovo che il tribunale della sanità, nè altri, facessero rimostranza nè opposizione di sorte alcuna. Soltanto, il tribunale suddetto ordinò alcune precauzioni che, senza riparare al pericolo, ne indicavano il timore. Prescrisse più strette regole per l’entrata delle persone in città; e, per assicurarne l’esecuzione, fece star chiuse le porte: come pure, affine d’escludere, per quanto fosse possibile, dalla radunanza gli infetti e i sospetti, fece inchiodar gli usci delle case sequestrate: le quali, per quanto può valere, in un fatto di questa sorte, la semplice affermazione d’uno scrittore, e d’uno scrittore di quel tempo, eran circa cinquecento”. Insomma, il vescovo dovette cedere alle insistenze del suo gregge perché si facesse questa professione, per impetrare tramite l’intercessione di San Carlo, la cessazione della peste.
Ed ecco la descrizione della processione: “Tre giorni furono spesi in preparativi: l’undici di giugno, ch’era il giorno stabilito, la processione uscì, sull’alba, dal duomo. Andava dinanzi una lunga schiera di popolo, donne la più parte, coperte il volto d’ampi zendali, molte scalze, e vestite di sacco. Venivan poi l’arti, precedute da’ loro gonfaloni, le confraternite, in abiti vari di forme e di colori; poi le fraterie, poi il clero secolare, ognuno con l’insegne del grado, e con una candela o un torcetto in mano. Nel mezzo, tra il chiarore di più fitti lumi, tra un rumor più alto di canti, sotto un ricco baldacchino, s’avanzava la cassa, portata da quattro canonici, parati in gran pompa, che si cambiavano ogni tanto. Dai cristalli traspariva il venerato cadavere, vestito di splendidi abiti pontificali, e mitrato il teschio; e nelle forme mutilate e scomposte, si poteva ancora distinguere qualche vestigio dell’antico sembiante, quale lo rappresentano l’immagini, quale alcuni si ricordavan d’averlo visto e onorato in vita. Dietro la spoglia del morto pastore (dice il Ripamonti, da cui principalmente prendiamo questa descrizione), e vicino a lui, come di meriti e di sangue e di dignità, così ora anche di persona, veniva l’arcivescovo Federigo. Seguiva l’altra parte del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di del clero; poi i magistrati, con gli abiti di maggior cerimonia; poi i nobili, quali vestiti sfarzosamente, come a dimostrazione solenne di culto, quali, in segno di penitenza, abbrunati, o scalzi e incappati, con la buffa sul viso; tutti con torcetti. Finalmente una coda d’altro popolo misto. Tutta la strada era parata a festa; i ricchi avevan cavate fuori le suppellettili più preziose; le facciate delle case povere erano state ornate da de’ vicini benestanti, o a pubbliche spese; dove in luogo di parati, dove sopra i parati, c’eran de’ rami fronzuti; da ogni parte pendevano quadri, iscrizioni, imprese; su’ davanzali delle finestre stavano in mostra vasi, anticaglie, rarità diverse; per tutto lumi. A molte di quelle finestre, infermi sequestrati guardavan la processione, e l’accompagnavano con le loro preci. L’altre strade, mute, deserte; se non che alcuni, pur dalle finestre, tendevan l’orecchio al ronzìo vagabondo; altri, e tra questi si videro fin delle monache, eran saliti sui tetti, se di lì potessero veder da lontano quella cassa, il corteggio, qualche cosa. La processione passò per tutti i quartieri della città: a ognuno di que’ crocicchi, o piazzette, dove le strade principali sboccan ne’ borghi, e che allora serbavano l’antico nome di carrobi, ora rimasto a uno solo, si faceva una fermata, posando la cassa accanto alla croce che in ognuno era stata eretta da san Carlo, nella peste antecedente, e delle quali alcune sono tuttavia in piedi: di maniera che si tornò in duomo un pezzo dopo il mezzogiorno. Ed ecco che, il giorno seguente, mentre appunto regnava quella presontuosa fiducia, anzi in molti una fanatica sicurezza che la processione dovesse aver troncata la peste, le morti crebbero, in ogni classe, in ogni parte della città, a un tal eccesso, con un salto così subitaneo, che non ci fu chi non ne vedesse la causa, o l’occasione, nella processione medesima. Ma, oh forze mirabili e dolorose d’un pregiudizio generale! non già al trovarsi insieme tante persone, e per tanto tempo, non all’infinita moltiplicazione de’ contatti fortuiti, attribuivano i più quell’effetto; l’attribuivano alla facilità che gli untori ci avessero trovata d’eseguire in grande il loro empio disegno. Si disse che, mescolati nella folla, avessero infettati col loro unguento quanti più avevan potuto. Ma siccome questo non pareva un mezzo bastante, nè appropriato a una mortalità così vasta, e così diffusa in ogni classe di persone; siccome, a quel che pare, non era stato possibile all’occhio così attento, e pur così travedente, del sospetto, di scorgere untumi, macchie di nessuna sorte, su’ muri, nè altrove; così si ricorse, per la spiegazion del fatto, a quell’altro ritrovato, già vecchio, e ricevuto allora nella scienza comune d’Europa, delle polveri venefiche e malefiche; si disse che polveri tali, sparse lungo la strada, e specialmente ai luoghi delle fermate, si fossero attaccate agli strascichi de’ vestiti, e tanto più ai piedi, che in gran numero erano quel giorno andati in giro scalzi. “Vide pertanto,” dice uno scrittore contemporaneo, “l’istesso giorno della processione, la pietà cozzar con l’empietà, la perfidia con la sincerità, la perdita con l’acquisto.” Ed era in vece il povero senno umano che cozzava co’ fantasmi creati da sè”. 

Insomma, la lunga descrizione che ho riportato del Manzoni, descrizione comunque estremamente godibile dal punto di vista letterario, ci offre un quadro di come religiosità, superstizione, psicosi, speranze, paure, spesso si mischino e formino un groviglio che è veramente difficile dipanare. Aveva ragione il vescovo Federico non voler fare la processione? Aveva ragione il popolo ad insistere per la stessa?  Certamente Borromeo fu comunque di grande esempio: “Federigo dava a tutti, com’era da aspettarsi da lui, incitamento ed esempio. Mortagli intorno quasi tutta la famiglia arcivescovile, e facendogli istanza parenti, alti magistrati, principi circonvicini, che s’allontanasse dal pericolo, ritirandosi in qualche villa, rigettò un tal consiglio, e resistette all’istanze, con quell’animo, con cui scriveva ai parrochi: “siate disposti ad abbandonar questa vita mortale, piuttosto che questa famiglia, questa figliolanza nostra: andate con amore incontro alla peste, come a un premio, come a una vita, quando ci sia da guadagnare un’anima a Cristo.” Non trascurò quelle cautele che non gl'impedissero di fare il suo dovere (sulla qual cosa diede anche istruzioni e regole al clero); e insieme non curò il pericolo, nè parve che se n’avvedesse, quando, per far del bene, bisognava passar per quello. Senza parlare degli ecclesiastici, coi quali era sempre per lodare e regolare il loro zelo, per eccitare chiunque di loro andasse freddo nel lavoro, per mandarli ai posti dove altri eran morti, volle che fosse aperto l’adito a chiunque avesse bisogno di lui. Visitava i lazzeretti, per dar consolazione agl’infermi, e per animare i serventi; scorreva la città, portando soccorsi ai poveri sequestrati nelle case, fermandosi agli usci, sotto le finestre, ad ascoltare i loro lamenti, a dare in cambio parole di consolazione e di coraggio. Si cacciò in somma e visse nel mezzo della pestilenza, maravigliato anche lui alla fine, d’esserne uscito illeso”. Una descrizione certo di altri tempi, ma una descrizione che ci mostra anche alcune dinamiche psicologiche, che non è difficile vedere in atto anche ai giorni nostri.

venerdì 28 febbraio 2020

Castigo di Dio fra misericordia e giustizia

In questi giorni di epidemia di coronavirus, tengono banco le parole del Cardinale Angelo Scola sul castigo divino dietro il coronavirus. Questo tema tenne banco già qualche anno fa e il padre domenicano Giovanni Cavalcoli fu allontanato da Radio Maria proprio per alcune dichiarazioni in cui sosteneva che Dio può in alcune situazioni castigare per ottenere un bene maggiore. Il Cardinale Scola ha detto, rispondendo alla domanda se sia cristiano pensare che dietro il coronavirus ci siano dei castighi divini, che “è una visione scorretta. Dio vuole il nostro bene, ci ama e ci è vicino. Il rapporto con lui è da persona a persona, è un rapporto di libertà. Certo, conosce e prevede gli avvenimenti ma non li determina. Quando gli chiedono se le diciotto persone morte sotto il crollo della torre di Siloe abbiano particolari colpe Gesù smonta la questione: “No, io vi dico, non erano più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme”. Per i cristiani Dio comunica attraverso le circostanze e i rapporti. Anche da questa circostanza potrà emergere un bene per noi. Fra i tanti insegnamenti la necessità di imparare a stare nella paura portandola a un livello razionale”. Ma, a me sembra, che la spiegazione del cardinale è comunque non molto efficace; se Dio è così buono come lui afferma, e come noi ovviamente pensiamo, perché se prevede e conosce gli avvenimenti funesti non fa nulla per impedirli? Quindi, anche in questo caso, dobbiamo pensare che l’immagine di Dio che ne viene fuori non è molto positiva. Certamente, Dio rispetta la libertà dell’uomo; ma esiste anche il rispetto per la libertà della natura?
In Proverbi 20, 24 viene detto: “Dal Signore sono diretti i passi dell'uomo e come può l'uomo comprender la propria via?”. E la Bibbia sui castighi di Dio dice molto, come ben argomenta un articolo che invito a leggere su Korazym e di cui offro un estratto: “L’Antico Testamento, che mi risulta essendo ancora parte integrante della dottrina cristiana, è pieno di racconti di castighi divini. A volte hanno il significato di vere e proprie punizioni inflitte a causa di una irreversibile malvagità umana e altre volte il Signore attraverso severi castighi cerca di correggere le cattive inclinazioni dei suoi figli. Anche nel Nuovo Testamento – e negli stessi Vangeli – il concetto di castigo divino è presente, pur legato ai concetti di misericordia e di giustizia, come tre facce della stessa realtà divina. Quindi, il castigo divino non è certamente “una visione scorretta”, come provano a farci credere certi prelati e teologi cattolici del “politicamente corretto”, che speso è figlio della menzogna e dell’ipocrisia, del bigottismo e della falsità. Certamente, quando il Signore castiga non intende distruggere le sue creature, ma vuole convincere i suoi figli a convertirsi alla verità, alla carità e alla giustizia. Il castigo divino fa parte integrante della misericordia e della giustizia divina. Parlare di castigo e di punizioni di Dio non è affatto “scorretto”, non è una “aberrazione religiosa”, non è “pulviscolo integralista”, non denota una “spiritualità pagana, anticristiana e indifferente alle disgrazie” da tante persone patite, anche a causa di eventi catastrofici ed epidemie. Solo riconoscendo la divina facoltà di castigare, nel corso e oltre la vita terrena, è possibile riconoscere, senza ipocrisia, in verità, la misericordia e la giustizia di Dio. Il castigo divino, lungo dall’essere una negazione della divina misericordia, ne è l’effetto ontologicamente inscritto nella universale giustizia di Dio”.
Senza puoi dimenticare, che il castigo, la punizione, è il segno più alto del rispetto della libertà dell’uomo. Se non ci fosse giustizia per coloro che scelgono di comportarsi in modo non conforme agli insegnamenti di Dio, vorrebbe dire che Dio non rispetta fino in fondo la loro libertà di scegliere quale strada prendere, sia pure essa quella del peccato. Quindi, il castigo è una logica conseguenza del rispetto che Dio ha per la libertà dell’uomo.
E che cosa dire dell’inferno? Se Dio è così buono, perché esiste l’inferno? L’inferno esiste proprio perché Dio è buono, proprio perché Egli rispetta la libertà di ciascuno di prendere la via desiderata. Certamente si può dire che alcuni peccano per debolezza e non per volontà di disubbidire a Dio. Certo, questo è verissimo, e proprio perché Dio è giusto in modo assoluto, sa leggere nel cuore di chi pecca per debolezza personale e di chi invece lo fa per ribellione verso di Lui. Divo Barsotti, in una meditazione del 1972, diceva: “La giustizia dunque di Dio è la sua stessa misericordia. Egli non può essere giusto, Egli può essere buono, longanime perché nulla può essere sottratto al suo dominio: giusto giudice, Egli eserciterà la sua giustizia in una bontà senza confine, in un amore che non conosce misura. È quello che diceva del resto anche uno dei nostri grandi mistici medioevali, il beato Suso: «Alla giustizia divina che è infinita non risponde se non una misericordia infinita». Perché ci deve mandare all’inferno Nostro Signore? Certo, se tu ci vuoi andare ci vai, ma perché dovrebbe mandartici Lui? Tanto, anche mandandoti all’inferno, non ottiene nulla da te: mica ottiene un risarcimento per il nostro peccato! L’unico risarcimento che può ottenere per il nostro peccato è il suo Sangue divino, è il suo amore infinito; solo questo amore risponde all’abisso della colpa. L’abisso della colpa è colmato soltanto da Dio: non dall’atto umano, non dalla pena dell’uomo. E proprio perché la pena dell’uomo non può soddisfare la giustizia divina, questa pena sarà eterna. Cioè, non perché l’eternità della pena soddisfi, ma perché non potendo soddisfare, l’uomo rimane nella pena, il debitore rimane insolvibile. Allora, dal momento che ci scapita l’uomo e ci scapita Dio, perché Dio dovrebbe mandarmi all’inferno. Apriamo la nostra anima ad accogliere il dono della misericordia infinita! Accogliamo questa misericordia infinita che sola risponde alle esigenze della sua divina giustizia, della sua Santità”. 

Soltanto una giustizia infinita dà ragione di una misericordia infinita. Allora, tornando alla questione del coronavirus, cosa possiamo dire? Certamente Dio è vicino all’uomo che soffre, e non voglio certo dire che Lui abbia mandato questa afflizione, non conosco i suoi piani che sono imperscrutabili. Quello che mi sembra di poter dire, è che se Dio ha permesso che questo accadesse, è certamente per richiamarci a qualcosa di più alto, di più grande, qualcosa che, malgrado le sofferenze, possa farci riflettere sul modo in cui portiamo avanti la nostra esistenza terrena.

giovedì 27 febbraio 2020

Chiesa cattolica e civiltà musicale

Non molti riflettono sullo stretto legame che esiste fra la Chiesa cattolica e la nostra grande cultura occidentale. Dire “grande cultura occidentale”, non vuol dire disprezzare le culture degli altri paesi, anche molto lontani. No, solo chi sa apprezzare quello che ha può apprezzare anche quello che hanno gli altri. È una verità indiscutibile che la musica occidentale ha raggiunto livelli eccelsi grazie al patrocinio della Chiesa cattolica. La grande musica occidentale è nata grazie a generazioni di cantori, maestri di coro, organisti, compositori per la liturgia; dire questo, è soltanto dire una verità che è evidente a tutti. Certamente, è stato anche grande il contributo delle altre confessioni cristiane, pensiamo per esempio ai grandissimi compositori protestanti, primo fra tutti Johann Sebastian Bach. Ma ricordiamo che quest’ultimo, vertice assoluto della nostra cultura, fu anche molto influenzato da compositori provenienti dall’esperienze in ambito cattolico, come Giovanni Pierluigi da Palestrina e Antonio Vivaldi. Insomma, questo legame stretto che esiste fra la cultura occidentale e il cristianesimo in generale e più specificamente la Chiesa cattolica, oggi viene completamente dimenticato. Oggi, la Chiesa cattolica rincorre le mode, musicali e non. Sarebbe meglio non parlare dello stato della musica liturgica in tante cattedrali, non voglio neanche riferirmi alle parrocchie. C’è veramente da far pensare molto se si osserva a quale livello infimo siamo stati capaci di giungere. Questo stato di cose, naturalmente è stato coltivato anche da tanti mali concorrenti, come ho già spiegato nel mio libro “delle cinque piaghe del canto liturgico“. Una di queste piaghe, è il clericalismo. Anche papa Francesco ne parla molto, ma io sostengo che non può fare nulla contro questa piaga. Qual è il motivo? Prima di tutto, questa è una piaga endemica al sistema clericale. È inevitabile, essendo noi umani, che il sistema clericale adotti delle strategie per difendere la propria sopravvivenza. Questo è perfettamente comprensibile, e il risultato è appunto il clericalismo, che ha anche delle conseguenze nel campo della liturgia e della Musica Sacra. In Italia, queste conseguenze sono molto più forti, per via della ovvia vicinanza che noi abbiamo verso i centri di potere. Non che in passato, ai tempi del grande patrocinio della Chiesa verso la musica e le altre arti, non ci fosse il clericalismo. In quel caso però il livello culturale del clero in generale, specialmente dei vertici, consentiva che questo stretto controllo sulle cose ecclesiali portasse anche ad una promozione della grande cultura. Oggi, dobbiamo veramente riflettere su cosa rimane della civiltà cristiana, di cui la musica e le arti sono una parte è veramente importante.
Il pensatore brasiliano Plinio Corrêa de Oliveira diceva: “È questa è la nostra finalità, il nostro grande ideale. Avanziamo verso la civiltà cattolica che potrà nascere dalle rovine del mondo moderno, come dalle rovine del mondo romano è nata la civiltà medioevale. Avanziamo verso la conquista di questo ideale, con il coraggio, la perseveranza, la decisione di affrontare e di vincere tutti gli ostacoli, con cui i crociati marciavano verso Gerusalemme”. Certamente è un bel pensiero, e ci piace pensare che uno scenario del genere sia presto possibile. Purtroppo, tutti i segnali vanno in senso contrario, vanno verso una dissoluzione non una ricomposizione. Forse, sarò anche pessimista. Ma a volte i pessimisti ci prendono, perché riescono ad intuire delle tendenze che avanzano inesorabili e che nessuno ha la capacità, o forse la voglia, di poter fermare.

mercoledì 26 febbraio 2020

Il vescovo di Saluzzo e la mortificazione come mistica della croce

Entrando nel tempo di Quaresima, siamo portati a riflettere sulle nostre tante mancanze e sulle prove che stiamo vivendo in questo tempo storico, come quella dell’incipiente epidemia dovuta al covid-19. Per questo motivo, per non affogare nella quotidianità, mi volgo al 1859, alla lettera pastorale per la Quaresima dell’allora vescovo di Saluzzo, Giovanni Antonio Gianotti (1764-1863). Nel sito della diocesi di Saluzzo troviamo queste note biografiche sul presule: “Ricevette l’ordinazione episcopale il 26 maggio 1833 dall’arcivescovo di Torino mons. Franzoni, assistito dai conconsacranti: il vescovo di Ivrea mons. Chiaravalle e di Susa mons. Cirie Per il suo zelo e la sua dottrina fu preposto alla Regia Università di Sassari, e ancor più diede prova di generosa dedizione agli ammalati e diseredati durante il colera del 1835. Per motivi di salute mons. Gianotti, nel 1836, dovette rinunciare alla diocesi di Sassari, dove spese il meglio di se stesso. Rientrato nella città natale, poté ristabilirsi. Nuovamente su proposta del Re, il Papa, il 19 giugno 1837 lo nominò vescovo di Saluzzo, dove fece il suo ingresso il 6 agosto 1837. Un vasto campo di apostolato si apriva a mons. Gianotti che tanta esperienza aveva acquisito negli anni precedenti. La diocesi di Saluzzo lo accolse con esultanza, desiderosa di seguire i suoi indirizzi pastorali. Il 28 maggio 1840 indisse la prima visita pastorale con un programma ben definito. Il 9 giugno dello stesso anno, indirizzò ai cittadini saluzzesi un particolare invito a sostenere la scuola cattolica, per la quale invitava: “i Fratelli delle scuole della dottrina cristiana” ad aprire, con il contributo dei cittadini, una scuola d’ispirazione cristiana, così motivandola: “per l’educazione della gioventù povera dall’età di trenta mesi ai quattordici o quindici anni”. Diffuse e promosse la conoscenza delle iniziative civili, come la applicazione del sistema metrico decimale, le scuole serali e domenicali. Nel 1848 sostenne apertamente la costituzione albertina e fu tenace assertore della validità del metodo elettorale, invitando i fedeli ad andare a votare, perché venissero eletti alle cariche pubbliche uomini capaci e onesti. Il 3 novembre del 1841, inaugurò solennemente l’anno scolastico, aperto sei mesi prima dai: “Fratelli delle Scuole Cristiane”. Nel frattempo i missionari di San Vincenzo avevano fatto richiesta al vescovo di stabilirsi nel territorio della parrocchia di Scarnafigi. Mons. Gianotti, in data 20 maggio 1843, scriveva ai sacerdoti della missione di San Vincenzo de’ Paoli: “… Non solamente acconsentiamo colla più viva soddisfazione dell’animo nostro che la congregazione dei Sacerdoti della Missione venga a stabilirsi nella parrocchia di Scarnafigi, ma n’affrettiamo coi più fervidi voti il momento avventurato, pronti ad abbracciare i pii e zelanti sacerdoti della medesima quali più cari e abili cooperatori del nostro ministero, nella cultura del clero e nella santificazione dell’anima…”. L’anno seguente, il 19 marzo, benedisse solennemente la prima pietra della chiesa, che fu terminata nel 1847 insieme alla grande casa dove i sacerdoti vi si stabilirono nello stesso anno. Il vescovo credette opportuno di avvalersi di questo complesso anche per il clero della diocesi e per gli aspiranti al sacerdozio. Pertanto pregò i sacerdoti della Missione di aprire una scuola di teologia morale per i neo-sacerdoti”. Insomma, un vescovo molto attivo per il suo gregge.
Nella sua lettera pastorale per la Quaresima del 1859 ci dice: “Non vi spaventate al nome di mortificazione; ché io non intendo  già, che vi armiate la destra di flagelli, o di ciliziii lembi, ma di  parlarvene con quella prudente discrezione, la quale, mentre nulla  toglie alla severità della legge, è pur conforme alla soavità del giogo di Cristo.  Convien pur dirlo, che alla sola sapienza celeste ed alla grazia di Gesù Cristo è dato di vedere bello, e sentir buono ciò che naturalmente fa orrore ai sensi, e tale si è della mortificazione evangelica. L‘uomo animale e terrestre non ne può comprendere la bellezza, né gustarne la soavità: eppure pell’uomo cristiano, e spirituale è la sorgente d’ogni bene, poiché all’impero della ragione  illuminata dalla fede ella assoggetta tutte le disordinate inclinazioni  della corretta natura, ed è per questo che dai Ss. Padri viene appellata freno delle passioni, odio di noi stessi, mistica croce, morte  volontaria. É il freno delle passioni perché ne trattiene l’impeto, ed il furore: è un odio di noi stessi perché esercita una severa giustizia sopra di noi peccatori: è una mistica croce, perché su d’essa dobbiamo appendere la nostra carne colle sue concupiscenze, e coi Vizii, che fomentano la sua ribellione alle leggi dello spirito: è finalmente una morte volontaria, perché fa morire in noi gli sregolati desiderii, che si oppongono al voler santo d’Iddio”. Mortificazione… Come questa parola ci sembra oggi così lontana dal nostro panorama spirituale e culturale. Sembra che essa non corrisponda alle dignità dell’uomo moderno, un uomo che ha solo diritti ma non doveri. Ecco che questa lettera pastorale che ci giunge da secoli scorsi, ci fa capire che invece proprio nella capacità di mortificare la propria carne è il segreto della vittoria finale. Ci dice il vescovo che la mortificazione è come una mistica croce, dove noi mettiamo la nostra carne in modo da meritargli la ricompensa tanto desiderata. All’inizio, esso ci dice che naturalmente noi non dobbiamo desiderare la mortificazione come se essa fosse un piacere, come qualcosa di cui rallegrarsi, ma come qualcosa di necessario per raffrenare le nostre passioni e i nostri vizi. Come siamo immersi nel nostre passioni nei nostri vizi? Certamente, parlando per me stesso, non posso che constatare la mia totale indegnità di Cristiano. Il vescovo prosegue: “La sola mortificazione può smorzare questo fuoco,  e indebolire l’indomita concupiscenza, privandola del pascolo di  quei piaceri, che appetisce, e macerando la carne, in cui ha sede,  vita e forza”. Queste parole oggi sembrano fuori tempo, non più adeguate per l’uomo moderno. In realtà, pure se naturalmente esse corrispondono a una spiritualità di secoli passati, possono ancora dirci tanto oggi. In effetti, sappiamo benissimo che spesso il peccato è come un fuoco, come qualcosa che ci brucia perché noi, invece di spegnerlo, continuiamo ad alimentarlo.

Ma per ottenere frutti dalla mortificazione, ci avverte il vescovo, non basta il pentimento interiore: “Che se con quelle parole Iddio vuole il cuore intendeste, che da  voi esige soltanto l’interna mortificazione e non l’esterna, togliete, io vi dirò, la corteccia ad un albero, e state certi, che ne dissaccherà ben presto il midollo; in simil guisa togliete al cristiano la esterna mortificazione del corpo, e vedrete che perderà ben presto l’interiore del cuore, giacché l’esterna non solo conserva l’interno,  ma la produce”. Che grande saggezza nelle parole del vescovo. Gli atti esterni di mortificazione, ci aiutano a ricomporre anche l’interno squilibrio del nostro animo, in preda a passioni, vizi, turpitudini. Io diffido moltissimo quei cattolici che pretendono di essere “buone persone“. Per me, il punto di partenza per la vera conversione, è ammettere la propria indegnità, il proprio essere peccatore. Tempo fa, quando fu chiesto a papa Francesco di definirsi, egli disse: “sono un peccatore“. Ecco, mi è piaciuto molto questa risposta, perché penso sia profondamente vera. Certo la grazia di Dio sempre ci attende come acqua zampillante, ma non può bere chi non sa di aver sete.

martedì 25 febbraio 2020

La grazia all’opera, malgrado noi

In questi giorni si parla quasi esclusivamente dell’epidemia che sta attanagliando il mondo. Ma un’altra notizia ha anche catturato la mia attenzione. Riguarda Jean Vanier (1928-2019), fondatore della Comunità dell’Arca per l’assistenza alle persone con disabilità, figura di grande rilievo nel cattolicesimo del secolo passato ed attuale, accusato (in una inchiesta commissionata dalla sua stessa Comunità) di abusi sessuali su alcune donne nel corso di accompagnamenti spirituali. Stesso destino era toccato al cofondatore della Comunità, il domenicano Thomas Philippe. Avvenire così riporta: “Erano stati i leader della comunità de L’Arche (questo il nome in francese di questa istituzione presente anche in Italia a Roma, Cagliari e Bologna e nota in tutto il mondo per accogliere le persone con disabilità intellettive in tutto il mondo) a rendere pubbliche le conclusioni dell’inchiesta da loro affidata a un organismo esterno e indipendente. Da questa indagine emerge che le donne aggredite sessualmente da Thomas Philippe hanno raccontato anche abusi sessuali commessi da Jean Vanier, «generalmente nell’ambito di un accompagnamento spirituale». Nella nota, i vescovi di Francia esprimono la loro fiducia nelle comunità de “L’Arche” che ha la sua sede centrale a Parigi, e soprattutto «la loro stima per i responsabili di questa istituzione che hanno preso sul serio la testimonianza ricevuta» dalle vittime. «I vescovi ringraziano i leader dell’associazioni per averli informati» e ribadiscono che «alla fine di questa indagine, non c’è nulla che indichi che le persone disabili siano state vittime di atti inappropriati da parte di Jean Vanier». La Conferenza dei vescovi di Francia (Cef) collaborerà con la Conferenza dei religiosi di Francia, con l’Ordine dei frati predicatori e la Congregazione dei Fratelli di San Giovanni «per continuare la necessaria opera di chiarimento» sul padre domenicano Thomas Philippe, morto nel 1993, e già riconosciuto responsabile di abusi nel 1956”. Ora, come comportarsi di fronte a rivelazioni del genere? Immagino sia simile alla sensazione provata dai Legionari di Cristo davanti alle rivelazioni sul loro fondatore, di magnitudine certamente molto più ampia.
Il comportamento del fondatore, non può togliere il bene che può essere stato fatto attraverso la comunità. Questo vale naturalmente per tutte quelle istituzioni religiose o civili che si trovano a dover far fronte ai comportamenti immorali dei loro fondatori, a cui certamente devono comunque tanto. Bisogna saper capire che la grazia lavora anche malgrado i nostri comportamenti scorretti. Siamo in fondo tutti peccatori, su questo c’è poco da dire. Bisogna avere la capacità di distinguere tra il bene che è stato fatto e le imperfezioni, anche gravi, di chi ha originato quei meccanismi che quel bene hanno permesso. Io non conosco nel dettaglio la vicenda di Jean Vanier e non saprei dire cosa sono quegli “abusi sessuali” di cui si parla. Proprio in questi giorni si parla anche del caso del produttore americano Harvey Weinstein, riconosciuto colpevole di violenza sessuale e in attesa di conoscere l’entità della sua condanna. Bisogna essere certamente chiari: quando viene perpetrata una violenza, questa va condannata. Nessuno deve essere costretto a fare qualcosa che non vuole fare. Poi, ci sono quelle situazioni in cui si accettano certi scambi anche di natura sessuale per poi ripensarci. Su questo, ci sono varie interpretazioni. Come ho detto, io non conosco la natura degli abusi sessuali di cui Jean Vanier è accusato e immagino essi siano gravi, non siano state relazioni sessuali consensuali e quindi non imputabili. Ma, malgrado questo, dobbiamo cercare di proteggere le opere dall’indegnità dei fondatori (tranne nel caso che queste opere siano il prodotto diretto di questa indegnità, ma non stiamo parlando di questo).

Il filosofo Romano Amerio ben diceva: “Perciò gli uomini che appartengono alla Chiesa predicano sempre una dottrina superiore ai loro fatti. Nessuno può predicare sé stesso, sempre deficiente e prevaricatore, ma soltanto reinsegnare la dottrina insegnata dall’uomo-Dio, anzi la persona stessa dell’uomo-Dio. Anche la verità dunque è un costitutivo della santità della Chiesa perpetuamente attaccata al Verbo e perpetuamente contraddicente alla corruttela, compresa la propria“. Ecco, questa è una verità profonda. Nessuno predica mai se stesso, quando ha capito veramente bene l’essenza della dottrina cattolica. Se uno predica se stesso, allora tutte le sue opere crolleranno con lui. Ma bisogna stare attenti, nel non identificare in alcune persone quello che deve trovare sempre l’ultima sua ragione in una origine soprannaturale.

lunedì 24 febbraio 2020

La Messa non ha bisogno di pubblico

È inevitabile che in questi giorni si parli tantissimo dell’epidemia di coronavirus, che oramai sta dilagando anche in Italia. Naturalmente questa epidemia fa preoccupare tantissimo le persone, che si trovano di fronte a qualcosa che non possono vedere. Quindi, questo problema, non tocca soltanto l’aspetto sanitario, ma anche sociale, antropologico, psicologico, culturale e naturalmente religioso. Certamente, perché nelle regioni più colpite, si pone il problema di evitare assembramenti di persone persone per per prevenire il propagare del virus. Per questo, vengono cancellati eventi culturali, sportive, sociali, e anche in alcune regioni quelli religiosi, come per esempio la celebrazione della Messa. 
Il portavoce dell’arcivescovo di Milano, don Walter Magni, così comunica le decisioni dell’arcivescovo Mario Delpini, visto che la sua diocesi è tra le più colpite: “L’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, in ragione dell’ordinanza emanata dal presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, di concerto con il ministro della Salute, Roberto Speranza, dispone la sospensione delle Celebrazioni eucaristiche con concorso di popolo a partire dall’orario vespertino di domenica 23 febbraio e fino a data da definire a seguito dell’evolversi della situazione. Nella giornata di domani, lunedì 24 febbraio, verranno fornite ulteriori indicazioni in merito alle celebrazioni rituali”. L’arcivescovo stesso lascia questa preghiera nel sito della diocesi: “Invoco la benedizione di Dio per tutti: la benedizione di Dio non è una assicurazione sulla vita, non è una parola magica che mette al riparo dai problemi e dai pericoli. La benedizione di Dio è una dichiarazione di alleanza: Dio è alleato del bene, è alleato di chi fa il bene. Invoco la benedizione di Dio sugli uomini di scienza e sui ricercatori. La gente comune non sa molto di quello che succede, dei pericoli e dei rimedi di fronte al contagio. Il Signore è alleato degli uomini di scienza che cercano il rimedio per sconfiggere il virus e il contagio. In momenti come questi si deve confermare un giusto apprezzamento per i ricercatori e per gli uomini e le donne che si dedicano alla ricerca dei rimedi e alla cura dei malati. Si può essere indotti a decretare il fallimento della scienza e a suggerire il ricorso ad arti magiche e a fantasiosi talismani. La scienza non ha fallito: è limitata. Siano benedetti coloro che continuano a cercare con il desiderio di trovare rimedi, piuttosto che di ricavarne profitti. Certo si può anche imparare la lezione che sarebbe più saggio dedicarsi alla cura dei poveri e delle condizioni di vita dei poveri, piuttosto che a curare solo le malattie dei ricchi e di coloro che possono pagare. Che siano benedetti gli scienziati, i ricercatori e coloro che si dedicano alla cura dei malati e alla prevenzione delle malattie”. A parte la stilettata “pauperistica”, tutti ci auguriamo che gli scienzati possano trovare il rimedio a questa difficile situazione.
Costanza Miriano, così commentava con un post su Facebook domenica 23 febbraio: ““Sine Dominica non possumus”. Senza la celebrazione dell’eucaristia non possiamo vivere, dissero i Martiri di Abitina facendosi uccidere piuttosto che rinunciare alla celebrazione dell’eucaristia.  Credo che la sospensione delle messe in Lombardia sia una grave decisione, sono sicura che sia stata presa per rispettare norme sanitarie, ma io personalmente credo che ci tenga in vita - anche fisicamente - più il corpo di Cristo che qualsiasi altra cura. ps. Probabilmente le chiese per le messe feriali sono i luoghi meno affollati che frequento. Quindi, anche in seguito ai commenti, puntualizzo che fino a che rimangono aperti la metro, i bar, i supermercati e tutti i luoghi di lavoro in Lombardia, non ha senso vietare le messe, che dovrebbero essere l'ultima cosa da proibire, essendo il paragone con la peste manzoniana, al momento, per fortuna davvero sproporzionato. Infine, per caso ho parlato con un medico di Pronto Soccorso, tra l'altro di une delle regioni a rischio, il quale mi ha confermato che la decisione di sospendere le messe in un'intera regione è a suo avviso emotiva e quanto meno opinabile secondo la scienza. Questo da un punto di vista medico. Del punto di vista di fede ho già detto”. 
Don Gabriele Bernardelli, parroco di Castiglione d’Adda, uno dei paesi colpiti, ha mandato questo messaggio ai suoi fedeli (ripreso da Andrea Zambrano per La Nuova Bussola Quotidiana): “Cari fratelli e sorelle, nessuno di noi, forse, avrebbe mai pensato di trovarsi nella situazione nella quale, invece, siamo venuti a trovarci. Il nostro animo è frastornato, l’emergenza sembrava così lontana. Invece è qui, in casa nostra. Anche questo fatto ci porta a considerare come nel mondo siamo ormai un’unica grande famiglia. Ora ci dobbiamo attenere alle indicazioni che le autorità preposte hanno stabilito, tra cui la cessazione della celebrazione della Santa Messa. E’ facile, in questa situazione, lasciarsi andare spiritualmente, diventando apatici nei confronti della preghiera, ritenuta inutile. Vi invito, invece, cari fratelli e sorelle, ad incrementare la preghiera, che sempre apre le situazioni a Dio. Ci rendiamo conto in congiunture come la presente, della nostra impotenza, perciò gridiamo a Dio la nostra sorpresa, la nostra sofferenza, il nostro timore.  Mi è venuto in mente, ieri, il brano che si legge il mercoledì delle Ceneri, tratto dal profeta Gioele, laddove si dice: “Tra il vestibolo e l’altare, piangano i sacerdoti, ministri del Signore, e dicano: “Perdona, Signore, al tuo popolo”. Non ho vergogna a dirvi che ieri, dinanzi al tabernacolo e alla statua dell’Assunta, anch’io ho pianto. E vi chiedo di innalzare con me al Signore il grido della nostra preghiera. Pregare significa già sperare. Vi ricordo tutti nell’Eucaristia quotidiana e con me don Manuel, don Gino e don Abele. Quando sentirete suonare le campane della Messa, unitevi al sacerdote che offrirà il Sacrificio del Signore per tutti. Domani mattina, dopo la Messa che celebrerò alle 11.00, uscirò sul sagrato della parrocchiale benedicendo col Santissimo Sacramento tutta la parrocchia e tutto il paese. Ricordiamo soprattutto quanti sono stati contagiati dal virus e i loro familiari, affinché non si scoraggino, ma anche tutti gli operatori sanitari che si stanno spendendo per far fronte al contagio. Stiamo uniti nella preghiera. Il vostro parroco, don Gabriele”. Ecco, io ritengo che questa sia una posizione più equilibrata. Da un punto di vista di prudenza, io penso non sia del tutto errato evitare che ci siano assembramenti di persone quando non siamo ancora neanche sicuri di come questo virus si è introdotto nel nostro paese in modo così dirompente. Quindi, si può capire che ci siano delle misure di prudenza che poi sono quelle che sono state prese anche a Macao e a Hong Kong. Ma in questi posti, la celebrazione della Messa è stata garantita comunque attraverso i mezzi di comunicazione di massa. La Messa poi è efficace in se stessa, non richiede un pubblico. Questo è stato uno dei grandi errori dei decenni postconciliari, pensare che la Messa fosse valida se ci fosse stato qualcuno che assisteva, altrimenti non valeva la pena celebrarla. In realtà non è affatto così, la Messa ha un valore proprio a prescindere da chi è presente nel momento della celebrazione. Essa è efficace in quanto viene celebrata, non in quanto c’è qualcuno ad assistere.

Padre Enrico Zoffoli, che tante pagine dedicò proprio alla Messa, nel suo Perché la Messa diceva: “Altro evidente errore in cui si è tentato di far cadere gl’ignari è stato quello di credere che la “presenza reale” cessi al termine dell’”assemblea del popolo di Dio”. Il Signore - si argomenta - disse: “Prendete e mangiate...”, non: “conservate...”; per cui Egli resta “cibo” soltanto finché si celebra il convito e tutti sono raccolti intorno alla comune mensa. Ripetuti e recenti richiami del Magistero hanno troncato la questione, illuminando i fedeli nel senso della grande Tradizione. C’è solo da rilevare che l’invito di Gesù a “mangiare“ non esclude affatto l’antichissimo costume della Chiesa di “conservare“, per “mangiare“ anche quando non si celebra… È arbitrario supporre che, cessato il rito, si annulli quanto durante il medesimo si è ottenuto e resta indiscutibilmente valido e provvidenziale come il più desiderabile dei doni. In realtà, molti di quei che sostengono una fandonia del genere non credono nella transustanziazione, negano la realtà del Sacrificio eucaristico, riducono il rito alla “cena o riunione del popolo di Dio”… Troppo logico che il Signore - presente solo in senso mistico tra i fedeli convenuti - non lo sia più dal momento che i medesimi sciolgono l’adunanza per tornarsene a casa. Questa - almeno logicamente - dovrebbe essere la convinzione anche di quei che negano alla Messa ogni valore, se celebrata dal sacerdote senza alcuna partecipazione del popolo, quasi che il sacerdote, da solo, non bastasse a rappresentare il Cristo, unico mediatore tra noi e Dio”. Penso di non dover aggiungere molto alla chiarezza di Padre Zoffoli. Quello che resta da dire, è che la messa non ha bisogno di un pubblico, non funziona di più se ci sono 1 milione di persone piuttosto che una. Quello che vogliamo sperare è che in questo momento si celebrino ancora più Messe, perché il tempo richiama ad una penitenza e preghiera ancora più accorata. Se si devono evitare situazioni che possono essere pericolose per coloro che vi partecipano, non si privi il popolo di Dio dello strumento soprannnaturale più efficace per chiedere a Dio la sua misericordiosa intecessione.

domenica 23 febbraio 2020

L’anno liturgico e il carnevale in tempo di prova

Sappiamo bene come l’anno liturgico ha una sua pedagogia. Attraverso i vari momenti che scandiscono l’anno liturgico noi siamo accompagnati a meditare i misteri della nostra fede, a partecipare alla storia della salvezza. Ovviamente, l’anno liturgico con la sua fissità si interseca anche con gli avvenimenti mutevoli della storia. In questo momento, tutto il mondo ha la preoccupazione per l’epidemia causata dal coronavirus. Proprio in questi giorni, in Italia quest’epidemia è deflagrata. Siamo in tempo di carnevale, ma siamo anche molto vicini all’inizio della Quaresima. Certamente la preoccupazione per un fenomeno misterioso come quello della diffusione di virus, rende il carnevale molto più amaro, per coloro che approfittano di questo tempo per dare sfogo alla propria voglia di divertimento. Quindi, sarà bene meditare su questo momento dell’anno liturgico e su questo momento storico.
Dom Prosper Guéranger, nel suo Anno liturgico, parlando della domenica di Quinquagesima, che precede il mercoledì delle ceneri, diceva: “Se dunque siamo figli di Abramo, in questo tempo di Settuagesima dobbiamo considerarci dei viaggiatori sulla terra, desiderosi di vivere, nello spirito, in quell'unica nostra patria donde fummo esiliati, ma alla quale ci avvicineremo ogni giorno più, se, come Abramo, saremo fedeli a guadagnare le diverse tappe che il Signore c'indicherà. Egli vuole che usiamo di questo mondo come se non ne usassimo (1 Cor. 7, 31), perché non è quaggiù la nostra dimora permanente (Ebr. 13, 14); e dimenticare che la morte ci separerà da tutte le cose che passano, sarebbe la nostra più grande sventura. Come sono lontani dall'essere veri figli di Abramo quei cristiani, che oggi e nei due prossimi giorni, s'abbandonano all'intemperanza e ai divertimenti peccaminosi, col pretesto che sta per cominciare la santa Quaresima. L'ingenuità dei costumi dei nostri primi padri poteva più facilmente conciliare la gravità cristiana con gli addii ad una vita più dolce che la Quaresima stava per interrompere, alla stessa maniera che la gioia dei loro pasti testimoniava, nella solennità della Pasqua, la stretta osservanza delle prescrizioni della Chiesa. È sempre possibile conciliare le due cose. Ma spesso avviene che l'idea cristiana dell'austerità si imbatte con le seduzioni della natura corrotta, e così la prima intenzione d'una semplice familiare allegria finisce per svanire in un lontano ricordo”. Un certo rigorismo del dotto monaco benedettino, non deve ingannarci; è vero che pur nel divertimento, dobbiamo cercare di non abbandonare una certa misura. La Chiesa, nella sua grande saggezza, ha sempre compatito certe debolezze umane quando esse rimangono nell’alveo di ciò che è controllabile. Quando esse vanno fuori misura, divengono pericolose sia per chi le compie che per la società stessa. Ecco perché, anche nel campo della sessualità, la Chiesa ha sempre condannato certi comportamenti al di fuori dei suoi insegnamenti, ma alcuni li ha bonariamente tollerati (non giustificati, però) proprio perché ha sempre capito che per la natura corrotta dell’uomo è molto difficile evitarli. I peccati secondo natura, rimangono sempre peccati, ma hanno un ordine di gravità diverso rispetto ai peccati contro natura.
Quindi, il carnevale può essere anche un momento di rilassamento prima dei rigori e delle penitenze della Quaresima, per chi ancora le osserva. Ma certamente, non deve essere un tempo di sfogo selvaggio, di violenza gratuita, di immoralità dilagante. Stranamente, un momento difficile come quello causato dalla paura di un’epidemia, ci richiama alla fragilità della nostra vita, alla volatilità della nostra esistenza.
Un articolo di Salvador Aragonés su aleteia.org ci richiama al senso del carnevale per un cristiano: “Essendo una festa pagana, alcuni si chiedono se sia un bene o un male per un cristiano partecipare al Carnevale. In teoria non c'è niente di male a partecipare al Carnevale, anche se tutto dipende dal tono e dai contenuti della festa. Per ogni cristiano non è bene mangiare troppo, ubriacarsi o assumere droghe, perché danneggiano la salute del corpo e vanno quindi contro il quinto comandamento, che obbliga a prendersi cura del proprio corpo senza esporlo a lesioni come quelle provocate dall'abuso di alcool, droghe o mangiate. Ciò non vuol dire che non si debba partecipare alle feste, ma che in esse il cristiano deve dimostrare la propria sobrietà e la propria temperanza. Divertirsi è sempre gradito a Dio, ma non è pulito e sano il divertimento che danneggia il proprio corpo con degli eccessi”. E, aggiungo, non è certamente bene per il proprio spirito.

In un tempo di prova come questo, in tempo di tensione sociale dovuto appunto alle paure per una epidemia che si sta allargando, come quella del coronavirus, concedere un certo divertimento, per quello che è possibile in una condizione sanitaria del genere, è certamente un bene. Ma, non dobbiamo mai dimenticare qual è lo scopo ultimo della nostra esistenza. Certamente oggi la presenza di Dio è molto meno sentita nella nostra società, quindi hanno molto meno senso per molti i digiuni, le astinenze, le ceneri, le mortificazioni. Eppure, momenti come questo, ci richiamano alle cose essenziali, alle cose che spesso siamo portati a ricordare quanto purtroppo è troppo tardi.

sabato 22 febbraio 2020

Gregorio magno, Enzo Bianchi, Giovanni Cavalcoli e i sette salmi penitenziali al tempo del coronavirus

Ricordo che tempo fa, per una rivista di liturgia, posi in musica uno schema per la pratica dei sette esami penitenziali. Questa circostanza mi è venuto in mente adesso, nei giorni in cui anche il mio paese, l’Italia, è completamente preso dall’epidemia del coronavirus. Nuovi casi sono scoppiati improvvisamente in Lombardia e la paura delle persone comincia a crescere, dando anche luogo ad episodi di intolleranza che sono razionalmente, totalmente ingiustificati. No, come tutti sappiamo, la paura non è razionale, la paura e forse ancora più contagiosa del virus stesso, quindi è qualcosa con cui dobbiamo fare i conti, perché essa non si trasformi in psicosi che può andare facilmente fuori controllo. Coloro che hanno una prospettiva religiosa, cattolica, dovrebbero pensare che la preghiera è uno strumento importante in questi momenti così di ansia. Quando Roma era piegata da peste e miseria nel sesto secolo, Gregorio magno propose delle processioni di riparazione. Ad un certo punto, all’altezza di Castel Sant’Angelo, egli vide l’arcangelo Michele riporre la spada nella fondina, segno che quella emergenza era finita.
In un articolo su aleteia.it così vengono presentati i 7 salmi penitenziali: “Sono detti Salmi Penitenziali quelli che la Vulgata enumera come i salmi 6, 31, 37, 50, 101, 129 e 142. Più degli altri, possiedono sentimenti di penitenza, con cui il salmista constata la gravità del suo peccato e chiede a Dio il perdono immeritato. In questi sette salmi vediamo chiaramente la Maestà divina che viene insultata dal peccato, e di pari passo verifichiamo il vero – e pungente – esempio del salmista, che si pente completamente della cattiva azione commessa e implora da Dio indulgenza per i suoi crimini. Partendo da questo atteggiamento di contrizione nasce un’altra supplica: quella che Dio plachi la sua sana ira, e considerando l’infinita bontà divina il salmista prega Dio di alleviare il castigo. Da tempi immemorabili la Santa Chiesa ha adottato questi sette salmi per usarli come una “fonte penitenziale”, incutendo attraverso di loro nei fedeli il vero spirito di pentimento dei peccati e facendo sì che tutti si pentano delle proprie mancanze. Il risultato è che questi salmi figurano in vari momenti della vita della Chiesa – l’ufficio divino, la sacra liturgia, la recita quotidiana e silenziosa, il canto in coro. Origene affermava che il motivo che ha portato la Chiesa a scegliere sette salmi penitenziali equivaleva a sette modi con cui si acquisisce il perdono dei peccati: il Battesimo, il martirio, le elemosine, perdonando i peccati altrui, convertendo il prossimo, effondendo la carità e infine mediante la penitenza”. Ora, se è vero che Dio non vuole certamente il nostro male, può essere vero che Dio permette certe calamità per richiamare gli uomini alle proprie responsabilità. Ricordiamo la polemica che ci fu qualche anno fa e che coinvolse il padre domenicano Giovanni Cavalcoli, proprio in merito a delle sue affermazioni su questo argomento. In una riflessione su comunita-abba.it, il padre Cavalcoli precisa: “In Avvenire del 27 agosto scorso Enzo Bianchi ha pubblicato alcune sue riflessioni sul recente terremoto, e pensando di consolare gli afflitti e di dare una risposta illuminante al perchè Dio ha permesso una tale sciagura, rispolvera la ben nota eresia, secondo la quale «Dio non castiga», falsità contraria alla sana ragione, alla Sacra Scrittura, al Magistero della Chiesa e all’insegnamento di tutti i Santi; ma, secondo lui, Dio è sempre e solo «misericordioso» con tutti e porta tutti, credenti e non credenti, in paradiso. Un’asserzione dolciastra del genere, gravissima sulle labbra di chi dovrebbe essere un uomo di Dio, toglie agli sventurati quell’impareggiabile conforto che viene dalla nostra fede, aggiunge amarezza ad amarezza, lasciandoli nell’angoscia, e spinge a bestemmiare un Dio che sarebbe «buono» nel mandare i terremoti. Cerchiamo di rimediare alla “droga tagliata male” spacciata da Bianchi proponendo il vero insegnamento evangelico, e supponendo nel lettore la disponibilità all’ascolto della Parola di Dio. Il mistero cristiano non esclude la ragione, ed è meglio una medicina amara che una bevanda dolce ma avvelenata. Diciamo allora innanzitutto che Bianchi si dimentica che la misericordia solleva dalla sofferenza o la impedisce ; si dimentica altresì che, in linea di principio, la sofferenza è la pena del peccato. E quindi la sofferenza non dipende dalla misericordia, ma dalla giustizia. Sicché, chiamare «misericordioso» uno che mi maltratta, è una presa in giro. Dunque, quando Dio permette le sciagure, non dimostra immediatamente la sua misericordia, ma la sua giustizia. È assurdo e derisorio tentare di spiegare la sofferenza con la sola misericordia trascurando la giustizia. Questo non vuol dire che quando mi capita una disgrazia, ciò sia sempre la punizione divina per un peccato che ho commesso. Ciò può essere in certi casi; ma non è detto che sia sempre così. Infatti, in realtà, in questa vita accade che ci siano dei malfattori di professione che la fanno franca e degli innocenti senza colpa alcuna che sono colpiti da sventure…”. Insomma, siamo alle solite, con la svalutazione della giustizia a discapito della misericordia. Quindi, Dio può permettere certe sciagure per richiamarci in certi momenti della nostra vita privata o della vita pubblica di certi paesi e certe società. Certo, questo coronavirus tocca tutto il mondo, o quasi. Allora, con molta capacità di discernimento, una parola oggi molto di moda, dovremmo capire che cosa Dio ci vuole dire. Ripetiamolo, non bisogna pensare che questo Dio quasi “gioisca” di queste sofferenze. E come il genitore che mette in punizione il figlio per ottenere qualcosa di più alto, come un insegnamento morale o educativo; certamente non gode della sua durezza nei confronti della carne della sua carne, ma pensa che essa sia necessaria.
Ecco allora, che in questi tempi oltre alle misure sanitarie necessarie, che vanno certamente rispettate con grande scrupolo, la preghiera è veramente importante. Al tempo di Gregorio magno si poteva accettare di andare tutti in processione, ma oggi questo sarebbe poco praticabile, proprio perché sappiamo che far riunire più persone in uno stesso luogo quando è in atto un epidemia non è certamente una misura da incoraggiare. Ma la preghiera privata, il rosario, i sette salmi penitenziali, sono tutte cose che non possono che fare bene al nostro corpo, proprio perché fanno bene alla nostra anima.


venerdì 21 febbraio 2020

Canto e memoria

Oggi ho avuto il piacere di incontrare e pranzare con Marcel Peres, animatore dell’Ensemble Organum, specializzato nell’esecuzione di musica antica, incluso il canto gregoriano e il canto romano antico, in un modo diverso e più “etnomusicologico” rispetto alla tradizione solesmense. È stata una conversazione affascinante, che ha toccato molti temi, una conversazione che sicuramente mi darà il modo di approfondire alcuni argomenti musicologici che comunque già erano presenti nella mia mente, in quanto io seguo il lavoro di questo musicista da più di vent’anni. Uno dei temi che si è toccato è quello del rapporto con la memoria. Noi sappiamo che anticamente, non essendoci notazione musicale, quello che veniva eseguito, veniva eseguito seguendo la memoria. Quindi, questo concetto di esecuzione del canto gregoriano come se i cantori avessero di fronte uno spartito, nel senso moderno, è fuorviante.
Racconto sempre un episodio che è accaduto molti anni fa, mentre seguivo la Messa in una chiesa di campagna. Durante la messa, i fedeli avevano eseguito alcuni canti di quelli del dopo concilio, canti comuni nei repertori di molte parrocchie. Ma alla fine le donne, contadine, cantarono un O bella mia speranza, con un tipo di melodia che avevano un inflessione e un andamento veramente popolari, con quel ritmo che non è esattamente metrico, ma che ha una sua logica interna. Io immagino che l’esecuzione di quel canto, sia stata diversa per ogni volta che veniva cantato, diremmo oggi spontanea. Non credo che gli esecutori si riferissero a nessuna fonte scritta per la loro esecuzione, ma usavano questa melodia che probabilmente le loro madri cantavano prima di loro e la variavano una infinità di volte. Come mi diceva Peres, oggi siamo abituati che a una nota scritta corrisponde un suono, ma anticamente non c’era questo. Anche i greci, nel loro canto, applicavano delle regole, nomoi, a melodie che erano strutture melodiche che potevano essere variate ad libitum. Non esisteva la figura del compositore che aveva il diritto di essere capito nelle sue intenzioni quando si eseguiva la sua musica, questa figura verrà molto più tardi, già nel secondo millennio dell’era cristiana.
Un contributo di Giulia Pratelli su exagere.it dice: “Il rapporto tra musica e memoria è infatti molto stretto e si svolge non solo sul piano personale, ma anche su quello collettivo: la musica svolge una funzione importantissima anche per la memoria sociale, diventando una vera a propria fonte di informazioni storiche, un prezioso strumento per il ricordo e la ricostruzione di avvenimenti, usanze, sentimenti diffusi in particolari periodi del passato. (...) Da sempre, attraverso la musica sono stati riportati e tramandati numerosi eventi. Facendo un salto indietro nel tempo, potremmo ricordare la figura dei bardi, i cantori itineranti celtici, che, nel XV secolo, cantavano leggende ma anche grandi imprese, testimonianze di episodi realmente accaduti (molto spesso, sicuramente, ingigantendoli per renderli più accattivanti). Il loro compito fondamentale era infatti quello di raccontare cosa fosse accaduto in terre lontane al fine di informare e diffondere le notizie, anche a coloro che per motivi geografici non potevano venire autonomamente a conoscenza dell’accaduto. Anche in epoche molto più recenti le canzoni sono state utilizzate per raccontare avvenimenti, diffondere ideologie e pensieri politici, idee di rivolta, di ribellione, grazie anche al maggior coinvolgimento emotivo che deriva dall’unione tra le parole e la musica, dal canto corale. È ad esempio quello che è accaduto nella seconda metà del XIX secolo negli Stati Uniti d’America del Sud, con la nascita del blues. Senza avere in questa sede modo e tempo per approfondire gli aspetti musicali di questo importantissimo genere, possiamo brevemente ricordare quanto accadde intorno alla fine del XVIII secolo, quando ebbe inizio la deportazione degli schiavi, dalle colonie africane al territorio americano, affinché svolgessero lavori pesanti, spesso in condizioni disumane, degradanti. Fu proprio l’incontro tra la musica, in particolar modo il canto, e il sentimento di oppressione, di angoscia e di dolore a dare origine ad un nuovo genere musicale che avrebbe avuto nel tempo una fortuna incredibile. I canti blues, inizialmente accompagnati dal solo battito delle mani, nacquero proprio dalla consapevolezza degli schiavi africani di essere diventati neri americani, come grida di dolore, lamenti che denunciavano la fatica e la mortificazione determinate dalle condizioni di vita e di lavoro nei campi. La musica era un elemento essenziale della vita degli schiavi africani: caratterizzava i momenti di preghiera, di svago ma anche di lavoro. Fu naturale che in essa convergesse la necessità di raccontare la propria condizione svantaggiata ed esprimere con forza la disperazione che da essa derivava, lasciando sempre uno spazio per la speranza di un domani migliore, soprattutto dopo la conversione al cristianesimo che determinò l’incontro e la contaminazione tra la particolare sensibilità musicale degli schiavi neri e gli elementi biblici, dando origine alla nascita degli spiritual. Anche in seguito all’emancipazione degli schiavi dopo la vittoria degli Stati del Nord nel 1865, la condizione dei neri americani rimase critica e il blues mantenne la sua natura di canto di dolore e di speranza, utilizzato dai neri americani per esprimere e raccontare la condizione di svantaggio in cui continuavano a trovarsi, essendo vittime di discriminazione e dovendo lottare per l’affermazione dei propri diritti”. Ecco, proprio questo esempio del blues, del jazz, ci fa considerare nel modo appropriato il ruolo della memoria. Gli “spartiti” di jazz o blues, sono canovacci; sappiamo quanto sia importante il ruolo dell’improvvisazione. Gaetano Manara in Modelli e trame dell’improvvisazione musicale dice: “L’improvvisazione artistica è una prassi estetica di notevole interesse. Essa, infatti, vive la dimensione della spontaneità più di qualsiasi altra forma artistica. Se l’arte è in grado di farci comprendere qualcosa sull’uomo, non ovviamente dal punto di vista del pensiero matematico-scientifico, ma dal punto di vista di un modo di pensare diverso che è quello estetico, ecco che l’improvvisazione dirà ciò che dell’uomo aderisce di più al suo animo. A differenza di una qualsiasi operazione artistica la cui genesi può avere anche una notevole durata e non avviene sotto la pressione di un pubblico, l’improvvisazione vivendo nell’immediatezza, fa cadere tutti i filtri e i ripensamenti che si possono frapporre tra l’artista e le sua opera nel corso di un lungo periodo decisionale. L’improvvisazione ci parla della spontaneità dell’essere umano”. Ecco, è esattamente questa dimensione che abbiamo perduto, forse per sempre.


giovedì 20 febbraio 2020

Cantare comunque a Messa? Una obiezione

Abbiamo già incontrato il beato Giuseppe Allamano (1851-1926) che diceva: “La liturgia ben fatta ha operato conversioni; se mal fatta le impedisce“. In effetti, qui il quesito è: a Messa va bene tutto, basta che si canti? Vediamo che in molte chiese, non ci si cura della qualità di quello che si canta, basta che si canti qualcosa, basta che i fedeli siano “intrattenuti” con qualche tipo di musica, anche se essa è non adeguata all’azione liturgica. Allora, bisogna domandarsi se questo modo di ragionare faccia bene allo scopo dell’azione liturgica oppure no. La mia risposta, lo dico dall’inizio, e che e meglio delle Messe senza musica, piuttosto che liturgie dove la musica disturba. Qui ci riferiamo a Messe nella forma ordinaria del rito romano, nella forma straordinaria c’è certamente più attenzione a questo aspetto.
Se si partecipa alla liturgia per trovare quel senso di adorazione, quel senso del sacro, quell’essere alla presenza del Signore, certamente una musica non adeguata, cantata male, biascicata, trascinata senza nessun gusto, smielata, sentimentalistica, certamente non aiuta a raggiungere quello che è lo scopo fondamentale della liturgia, che come sappiamo è la gloria di Dio in primis e poi la santificazione dei fedeli. Si dovrebbe avere molta attenzione sulla qualità della musica della liturgia. Qui non ne faccio una questione di lingue vernacolari o latino, ne faccio proprio una questione di buon gusto. Alcune volte, i canti che vengono eseguiti, il modo in cui vengono eseguiti, fa veramente distogliere dall’acquisire quel senso di preghiera che si dovrebbe raggiungere, fa piuttosto pensare ad uscire di lì il prima possibile.
A volte mi capita di girare per varie chiese nella mia Roma, e devo dire che in alcune Messe si esce peggio di quello che si è entrati, tanto mediocre è la qualità del canto liturgico. Ricordiamo che il canto liturgico non è un accessorio della liturgia, ma parte integrante. Quindi, se il canto è scadente, incide anche sulla qualità della nostra partecipazione alla liturgia. Ho trovato recentemente una chiesa in cui la Messa viene detta senza nessun canto, tranne quello dell’alleluia; il sacerdote tiene omelie brevi e molto ortodosse e devo dire che questa situazione è di gran lunga preferibile a quella di gran parte delle Messe parrocchiali.
Il problema, è che oramai si è veramente perso lo standard. La gran parte dei sacerdoti, non ha idea di quello che è canto liturgico e di quello che non lo è. Alcuni vagheggiano un ammodernamento dei canti, come se quello che è stato fatto da cinquant’anni a questa parte, con la introduzione fattiva della musica leggera nella liturgia, non avesse già prodotto abbastanza danni. Io credo che sia l’ora di svegliarsi! Le chiese sono vuote, malgrado tutti i cantarelli che si sono diffusi nelle nostre liturgie. Tutto questo non è servito, e non poteva, visto che andava nella direzione contraria a quello che la liturgia esige. Lo scopo della liturgia è stato messo da parte, per una malintesa volontà di “coinvolgere i fedeli“. In realtà, tutto quello che è venuto da questi decenni, non ha fatto che distruggere nei fedeli stessi il senso della liturgia il senso del sacro, il senso dell’adorazione, del silenzio, dell’inginocchiarsi, della devozione. Quindi, quei pochi fedeli che ancora vanno a messa, sono quasi del tutto depauperati della capacità di comprendere cosa è liturgico e cosa non lo è.
Non si canta nella liturgia tanto per cantare. Il canto è un ministero specifico, che ha finalità specifiche, se queste non sono raggiunte per la bassa qualità del canto o della sua esecuzione, meglio il silenzio, meglio non distogliere i fedeli con delle musiche inadeguate o inadeguatamente eseguite.
Ricevendo un dottorato in musica nel 2015, Benedetto XVI faceva, tra l’altro, questa riflessione: “Certo, la musica occidentale supera di molto l’ambito religioso ed ecclesiale. E tuttavia essa trova comunque la sua origine più profonda nella liturgia nell’incontro con Dio. In Bach, per il quale la gloria di Dio rappresenta ultimamente il fine di tutta la musica, questo è del tutto evidente. La risposta grande e pura della musica occidentale si è sviluppata nell’incontro con quel Dio che, nella liturgia, si rende presente a noi in Cristo Gesù. Quella musica, per me, è una dimostrazione della verità del cristianesimo. Laddove si sviluppa una risposta così, è avvenuto un incontro con la verità, con il vero creatore del mondo. Per questo la grande musica sacra è una realtà di rango teologico e di significato permanente per la fede dell’intera cristianità, anche se non è affatto necessario che essa venga eseguita sempre e ovunque. D’altro canto è chiaro però anche che essa non può scomparire dalla liturgia e che la sua presenza può essere un modo del tutto speciale di partecipazione alla celebrazione sacra, al mistero della fede“. Invece oggi, quasi ci si vergogna di questa eredità, la si considera qualcosa da tenere nascosta, per fare spazio alle “esperienze nuove“. Peccato che queste esperienze siano spesso contrarie ai fini stessi della liturgia, non siano per nulla adeguate ad una partecipazione viva e piena alla stessa. Purtroppo, c’è stato un fraintendimento enorme in questo senso. La liturgia è stata abbandonata alle mode, la musica e stata data in mano a degli incompetenti, a persone che hanno forse artatamente fatto in modo che il livello della musica liturgica fosse basso in modo che le loro produzioni avrebbero comunque avuto un posto. Ho molte volte detto, che la lotta contro il professionalismo del musicista di chiesa, non è stata forse fatta in modo innocente. Infatti, un musicista formato, ha una mente molto più critica e quindi “pericolosa“ per coloro che non vogliono avere nessuno tra i piedi a rovinare i “giochi“. In questo modo, senza professionisti tra i piedi, tutto viene accettato. 
La Chiesa poi, ha rinunciato alla sua funzione educatrice. Ricordiamo, come diceva anche il Papa Benedetto XVI in precedenza, che non solo la Chiesa favoriva la produzione di grande musica per la liturgia, grande arte, grande pittura, grande architettura, ma in questo modo era la più grande promotrice della cultura occidentale in toto. Quindi, questa funzione che la Chiesa aveva in precedenza, oggi è stata completamente abbandonata. Si rincorrono mode, senza mai raggiungerle perché queste, per la loro evanescenza, corrono più veloci di noi.

Quindi, ribadisco, in una situazione di emergenza e transizione come quella in cui ci troviamo negli ultimi decenni, è meglio cercare di salvare il salvabile per quello che riguarda la propria anima. Se sia una vera sensibilità liturgica, se si cerca il sacro, se si vuole il senso dell’educazione, allora meglio limitare i danni, cercare liturgie dove non ci sia canto. Certamente, se si è fortunati, e si trova una Messa dove il canto viene ben curato e ben eseguito, si è a cavallo. Ma questa oggi è una vera rarità.

mercoledì 19 febbraio 2020

Il tradimento della natura

Viviamo in un tempo in cui la natura di quello che siamo è tradito, non solo, viene deturpato con la pretesa di assecondarlo. La depressione della mascolinità nel nostro vissuto sociale e il travisamento di quello che è femminile, offrono una visione dell’umano che è del tutto sottosopra. Romano Amerio, nel suo bellissimo Iota Unum, così diceva: “L’uomo può perfezionare qualche parte della sua natura senza con ciò perfezionare la sua persona. Può, per esempio, perfezionare la sua sanità, la sua agilità fisica, la sua conoscenza delle cose, la sua potenza trasformatrice dei corpi senza con questo perfezionare la propria persona, senza cioè sviluppare il principio morale; può, come pur si riconosce e si lamenta, avanzare negli andamenti di quello che oggi si denomina simpliciter il progresso e tuttavia essere inerte e vizioso nella parte personale“. In effetti, quello che viene detto da questo grande pensatore, sembra proprio quello che sta accadendo nella nostra società. Avanziamo così tanto nella scienza da poter allungare la nostra vita, essere più sani, avere più capacità di conoscenza, ma in realtà quella natura che crediamo di esaltare, la deprimiamo nelle nostre persone, negandone il suo principio fondante. Basta vedere, come viene considerata oramai la questione del rapporto fra i sessi, sempre più complesso, sempre più regolato da norme giuridiche piuttosto che da convenienze sentimentali.
Il pensatore già citato ci dice che “la civiltà contemporanea perfeziona nell’uomo la natura, ma lascia incolto il principio personale di lui”. In effetti questo è molto interessante, in quanto si fa credere all’uomo di essere onnipotente, ma la sua onnipotenza è costruita su un trono d’argilla. Romano Amerio, ancora ci dice: “Lo scambio tra natura e persona è l’errore che partorisce la somatolatria, la glorificazione dello sport, la esaltazione dei diritti (divenuti cosa in sé, mentre derivano dal dovere morale), la dossologia delle invenzioni meccaniche, l’ammirazione inconsulta per la ricchezza e la potenza, e insomma il culto della città terrestre il cui fine diventa appunto l’ingrandimento della natura umana ad omne possibile“. Già, la civitas Dei agoatiniana, viene tenuta in disparte, come essa fosse cosa di poca importanza. Questa esaltazione delle possibilità dell’umano però, si scontra con la finitezza insita nella nostra condizione. Quindi, negare la propria natura credendo di affermarla non ci fa nessun bene, anzi è un rinnegare noi stessi. 
Lo scrittore Corrado Gnerre, nel suo libro La rivoluzione nell’uomo, dice: “La filosofia di Marx costituisce il compimento del pensiero moderno. Ora tanto il pensiero moderno quanto quello marxista si sono costruiti in alternativa e in opposizione al pensiero naturale e cristiano. Per cui, per meglio capire cosa afferma il pensiero moderno e quali sono stati i suoi passaggi fondamentali, dobbiamo conoscere le caratteristiche più importanti del pensiero naturale e cristiano. La prima convinzione è legata alla conoscenza: la dipendenza della nostra intelligenza dalla realtà da conoscere. La seconda convinzione è di carattere morale. Esistono il bene e il male, il bene non può essere confuso con il male e il male con il bene, il bene deve essere ricercato e il male rifiutato. Queste due convinzioni esprimono chiaramente che tutto è nella prospettiva della dipendenza. Ovvero l’uomo non può pretendere da solo di decidere cosa sia vero e cosa sia buono”. Ed è invece esattamente quello che l’uomo sta facendo, è artefice di se stesso. Gnerre prosegue: “Il pensiero moderno potrebbe essere sintetizzato in un elemento particolare: la demolizione della sottomissione all’oggetto. La corrente in cui questa demolizione si è realizzata pienamente è stata l’idealismo. L’idealismo è lo spirito umano che vive nelle sue proprie costruzioni, senza dipendere da alcuna realtà così come essa è“.

Noi siamo tutti figli di questa cultura anti umana, di una cultura che nega la natura perché in fondo nega Dio. Infatti come abbiamo detto, in realtà si pensa di esaltare la propria natura, aumentandone certe possibilità, legate alla sfera materiale e fisica. Ma dal punto di vista morale si deprime tutto. Badate bene, che per me la morale non è il moralismo, cosa che è veramente lontana dalla mia formazione. Si è anche messo in discussione la “qualità del peccato“. Cosa intendo? Si promuovono tutti quei comportamenti che portano a peccare in modo anti naturale mentre si denunciano come “innaturali” mancanze che invece sono solo carenze inscritte nell’ordine naturale (pensiamo a quelle del cibo e del sesso). Viviamo in un mondo all’incontrario e ne stiamo già pagando il prezzo.

martedì 18 febbraio 2020

Quattro ragioni per riscoprire i Salmi nella liturgia


Forse molti non ci fanno caso, ma si deve sapere che il libro dei Salmi, questa collezione di poesia religiosa ebraica, è al cuore della liturgia cristiana e cattolica. Questo, non è naturalmente un fatto nuovo, ma è così fin dagli inizi della Chiesa, o quasi. E per questo, c’è certamente un motivo, perché i Salmi hanno un valore tutto speciale nel nostro immaginario religioso. Vorrei suggerire quattro motivi di riflessione per farci riscoprire i Salmi nelle nostre liturgie.
  1. I Salmi sono Parola di Dio. Certamente, abbiamo altri libri della Bibbia in cui Dio si parla, ma i salmi hanno un valore tutto speciale. In essi Dio ci consegna un modo con cui possiamo rivolgerci a Lui. Spesso, nelle nostre liturgie moderne, sembra che bisogna soltanto pretendere allegria, spensieratezza, gioia (o presunta tale); ma nei Salmi noi abbiamo tutto l’arco delle emozioni umane, dalla gioia all’angoscia. In essi Dio ci insegna che la vita non è solo gioia, come non è solo angoscia; essi ci parlano con tutto l’arco possibile delle emozioni umane, si rivolgono a quello che Paolo VI chiamava “l’uomo integrale”.
  2. I Salmi elevano le nostre miserie. È vero che i Salmi parlano di tutte le nostre emozioni, comprese le nostre miserie. Ma il linguaggio poetico con cui affrontano queste situazioni, le sublima, le eleva, le rende in un certo senso meno dolorose e più sopportabili. La poesia dei Salmi, è stata oggetto di tantissimi studi, perché essa non è semplicemente poesia fine a se stessa, ma parola che diviene così intensa da penetrare nell’animo di chi ascolta con efficacia maggiore. Nei Salmi le miserie umane sono tutte presente, ma c’è come una mano che le tiene quasi in alto, senza farle sprofondare e noi con loro.
  3. I Salmi ci insegnano a cantare. Non possiamo dimenticare che i Salmi erano cantati. Quando li leggiamo, possiamo vedere che nelle prime righe sono indicati di solito gli autori, gli strumenti con cui potevano venire eseguiti, e addirittura la melodia su cui venivano cantati. I Salmi devono essere cantati, perché il canto non è semplicemente un passatempo, un qualcosa di accessorio; ma è il modo con cui la nostra anima riesce veramente ad elevarsi dalla sua condizione terrena. Ecco perché la situazione del canto nella nostra liturgia ai giorni nostri non è semplicemente triste, ma si configura come una tragedia vera e propria. Questa povertà, questa miseria, ci priva di uno strumento fondamentale per poter dirigere la nostra preghiera nel modo più giusto ed efficace al Creatore. Bisogna riflettere proprio sui Salmi, per riscoprire l’importanza del canto nella liturgia, ma non ogni canto, ma quel canto che è dedicato alle cose di Dio e non è riciclato dalle cose terrene.
  4. I Salmi ci connettono con la Tradizione liturgica. La Chiesa, fin quasi dagli inizi, ha sempre favorito l’uso dei Salmi nella liturgia. Sappiamo che i Salmi furono sempre sulla bocca dei cristiani, fin dai tempi apostolici. Tertulliano, ci parla di questo, come altri autori. Ma quando la Chiesa ha potuto organizzare la propria liturgia in modo più organico, scelse versetti dai Salmi, per arricchire i vari momenti liturgici, come l’introito, il graduale, l’offertorio, la comunione e via dicendo. I Salmi sono un linguaggio liturgico da generazioni fino a connetterci ai nostri padri nella fede. Essi sono un tesoro della nostra Tradizione liturgica. La scomparsa, nella pratica, del canto dei testi contenuti nel messale per le varie antifone di introito e comunione, e per il canto d’offertorio, è veramente un segno della difficile situazione in cui ci troviamo a vivere.