venerdì 24 aprile 2020

Il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo

Ci hanno detto che la virtù massima della prudenza consiste nel farsi gli affari propri, vivi e lascia vivere, non ti immischiare in cose che poi possono farti avere dei problemi. Ma questo, in fondo, non è un buon insegnamento di vita. Il pensatore Edmund Burke diceva che “perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione”. Ecco, se si vuole che il male avanzi, basta adottare proprio quella strategia di cui dicevamo prima.
Invece, ci insegna il grande pensatore brasiliano Plinio Côrrea de Oliveira, “il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo”. Anzi, per citare tutta la frase e dargli il suo contesto, essa dice: “Equilibrio non è la posizione di un uomo seduto pacatamente su una poltrona. Il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo, mentre realizza con la massima intensità tutte le sue potenzialità“. Cioè, l’equilibrio non è un atteggiamento passivo ma un atteggiamento dinamico, è l’atteggiamento di chi lotta. Quindi l’equilibrio non è un atteggiamento da tenere verso gli altri, ma verso se stessi, un atteggiamento da meritare e da guadagnare cercando di prepararsi all’agone del combattimento spirituale.
Aveva capito questo Lorenzo Scupoli, che nel suo Combattimento spirituale diceva: “Poiché sempre piacquero e piacciono tuttora a vostra Maestà i sacrifici e le offerte di noi mortali quando da puro cuore vengono offerti a gloria vostra, io presento questo trattatello del Combattimento spirituale dedicandolo alla divina vostra Maestà. Né mi tiro indietro perché questo trattato è piccolo: infatti ben si sa che voi solo siete quell'alto Signore che si diletta delle cose umili e disprezza le vanità e le pretese del mondo. E come potevo io senza biasimo e senza danno dedicarlo ad altra persona che alla vostra Maestà, Re del cielo e della terra? Quanto insegna questo trattatello tutto è dottrina vostra, avendoci voi insegnato che, non confidando più in noi stessi, confidiamo in voi, combattiamo e preghiamo. Inoltre se ogni combattimento ha bisogno di un capo esperto che guidi la battaglia e animi i soldati, i quali tanto più generosamente combattono quanto più militano sotto un invincibile capitano, non ne avrà forse bisogno questo Combattimento spirituale? Voi dunque eleggemmo, Gesù Cristo (noi tutti che già siamo risoluti a combattere e a vincere qualunque nemico), per nostro Capitano: voi che avete vinto il mondo, il principe delle tenebre, e con le piaghe e la morte della vostra sacratissima carne avete vinto la carne di tutti quelli che hanno combattuto e combatteranno generosamente”. Quindi, coloro che cercano l’equilibrio per prepararsi alla battaglia, hanno come capo supremo il Nostro Signore Gesù Cristo, secondo questo maestro di spiritualità. Inoltre egli aggiunge: “E perché, aspirando tu all'altezza di tanta perfezione, devi fare continua violenza a te stessa per espugnare generosamente e annullare tutte le voglie, grandi o piccole che siano, necessariamente conviene che con ogni prontezza d'animo ti prepari a questa battaglia: infatti la corona non si dà se non a quelli che combattono valorosamente. Siccome tale battaglia è più di ogni altra difficile (poiché combattendo contro di noi, siamo insieme combattuti da noi stessi), così la vittoria ottenuta sarà più gloriosa di ogni altra e più cara a Dio.
Se tu attenderai a calpestare e a dar morte a tutti i tuoi disordinati appetiti, desideri e voglie ancorché minime, renderai maggior piacere e servizio a Dio che se, tenendo alcune di quelle volontariamente vive, ti flagellassi fino al sangue e digiunassi più degli antichi eremiti e anacoreti o convertissi al bene migliaia di anime. Sebbene il Signore in sé gradisca più la conversione delle anime che la mortificazione di una voglietta, nondimeno tu non devi volere né operare altro se non quello che il medesimo Signore da te rigorosamente ricerca e vuole. Ed egli senza alcun dubbio si compiace di più che tu ti affatichi e attenda a mortificare le tue passioni che se tu, lasciandone anche una avvedutamente e volontariamente viva in te, lo servissi in qualunque cosa sia pure grande e di maggior importanza. Ora che tu vedi, figliuola, in che consiste la perfezione cristiana e che per acquistarla devi intraprendere una continua e asprissima guerra contro te stessa, c'è bisogno che ti provveda di quattro cose, come di armi sicurissime e necessarissime, per riportare la palma e restare vincitrice in questa spirituale battaglia. Queste sono: la diffidenza di noi stessi, la confidenza in Dio, l'esercizio e l'orazione”. Insomma, come detto, la battaglia più grande che ogni cavaliere deve affrontare è contro il nemico più feroce, se stessi. E a volte, nascondiamo questa battaglia professando alti ideali e nobili intendimenti. Ma in realtà cerchiamo di sfuggire alla battaglia mortale contro i nostri vizi, i nostri desideri, i nostri peccati. Ecco perché bisogna concepire la vita come una battaglia, che ci porta prima di tutto contro noi stessi ma anche contro le impronte del male nella storia. Dobbiamo essere pronti a combattere, contro una società che sovverte i valori naturali e che ci insegna che dobbiamo chiamare bianco il nero e nero il bianco. Il combattimento contro questa società è doloroso, richiede sacrifici enormi e ci invita ad accettare mortificazioni immense, anche e soprattutto a livello personale. Non sentiamoci buoni, non sentiamoci a posto perché ci buttiamo in questa battaglia; non facciamo che corrispondere a quello che ci richiede la nostra vocazione.
“Il vero equilibrio è quello del cavaliere sul suo cavallo”, non dimentichiamolo mai, non pensiamo che possiamo sfuggire da questa idea per coltivare una vita amorfa, seduti sulla nostra poltrona a fare nulla, lasciando che il mondo si mangi la realtà per sostituirla ad una realtà fittizia, che non esiste ma che fa comodo ai signori che manovrano dietro le quinte per sovvertire la natura. Se non facciamo nulla, se non combattiamo, siamo colpevoli come coloro che sono dalla parte avversa a noi. Il vero equilibrio non è lasciare andare le cose, ma è fatica, concentrazione, lotta. Non dobbiamo temere le delusioni, le amarezze, le sconfitte. Anzi, specie in un mondo in cui tutto lotta contro il bene, abbracciamo tutte le nostre sconfitte come fossero il bene più prezioso.



mercoledì 22 aprile 2020

L’acqua che tutto spegne, ravvivava sempre più il fuoco

Ci piace a volte vivere nella menzogna, ci fa comodo, lo troviamo piacevole. Abbiamo già detto come sarà la verità a liberarci, ma per arrivare alla verità il cammino è lungo, lungo e difficile. A volte ci sono persone che non ci arrivano in una vita intera. E anche chi vuole arrivarci, per scalare la montagna deve passare tanti ostacoli, tante delusioni. E spesso, come i cavalieri ci insegnano, il nemico più grande non è di fronte a te, ma dentro di te. 
Una frase dal libro della Sapienza (16, 17) mi è sembrata sempre molto significativa: “l’acqua che tutto spegne, ravvivava sempre più il fuoco”. Io l’ho interpretata nel senso che le cose che più dovrebbero placarci, spesso le usiamo per aumentare il problema che devono risolvere. Dico subito che la mia è una interpretazione che esula dal contesto di quel capitolo, in cui questa frase ha un senso più positivo, ma questa mia forzatura interpretativa mi serve per esprimere qualcosa che penso importante. Facciamo l’esempio della religione. Essere religiosi dovrebbe essere considerata una cosa buona, noi pensiamo che avere un atteggiamento religioso nella vita è il bene più grande. Ma è sempre così? No, non sempre, perché da alcuni la religione è usata come schermo per nascondere disagi psicologici profondi. È bene che chi ha disagi di ogni tipo cerchi consolazione nella religione, ma non usandola per fornirsi di una maschera di fronte agli altri. Ci sono le religiosità patologiche, le persone che usano la religione come userebbero gli psicofarmaci. Ecco perché bisogna aiutare queste persone a cercare il volto autentico di Dio, non la caricatura che serve a farli stare apparentemente meglio.
Benedetto XVI, nell’udienza del 16 gennaio 2013 tra l’altro diceva: “Vorrei soffermarmi su questo “rivelare il volto di Dio”. A tale riguardo, san Giovanni, nel suo Vangelo, ci riporta un fatto significativo che abbiamo ascoltato ora. Avvicinandosi la Passione, Gesù rassicura i suoi discepoli invitandoli a non avere timore e ad avere fede; poi instaura un dialogo con loro nel quale parla di Dio Padre (cfr Gv 14,2-9). Ad un certo punto, l’apostolo Filippo chiede a Gesù: «Signore, mostraci il Padre e ci basta» (Gv 14,8). Filippo è molto pratico e concreto, dice anche quanto noi vogliamo dire: “vogliamo vedere, mostraci il Padre”, chiede di “vedere” il Padre, di vedere il suo volto. La risposta di Gesù è risposta non solo a Filippo, ma anche a noi e ci introduce nel cuore della fede cristologica; il Signore afferma: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). In questa espressione si racchiude sinteticamente la novità del Nuovo Testamento, quella novità che è apparsa nella grotta di Betlemme: Dio si può vedere, Dio ha manifestato il suo volto, è visibile in Gesù Cristo. In tutto l’Antico Testamento è ben presente il tema della “ricerca del volto di Dio”, il desiderio di conoscere questo volto, il desiderio di vedere Dio come è, tanto che il termine ebraico pānîm, che significa “volto”, vi ricorre ben 400 volte, e 100 di queste sono riferite a Dio: 100 volte ci si riferisce a Dio, si vuol vedere il volto di Dio. Eppure la religione ebraica proibisce del tutto le immagini, perché Dio non si può rappresentare, come invece facevano i popoli vicini con l’adorazione degli idoli; quindi, con questa proibizione di immagini, l'Antico Testamento sembra escludere totalmente il “vedere” dal culto e dalla pietà. Che cosa significa allora, per il pio israelita, tuttavia cercare il volto di Dio, nella consapevolezza che non può esserci alcuna immagine? La domanda è importante: da una parte si vuole dire che Dio non si può ridurre ad un oggetto, come un'immagine che si prende in mano, ma neppure si può mettere qualcosa al posto di Dio; dall’altra parte, però, si afferma che Dio ha un volto, cioè è un «Tu» che può entrare in relazione, che non è chiuso nel suo Cielo a guardare dall’alto l’umanità. Dio è certamente sopra ogni cosa, ma si rivolge a noi, ci ascolta, ci vede, parla, stringe alleanza, è capace di amare. La storia della salvezza è la storia di Dio con l'umanità, è la storia di questo rapporto di Dio che si rivela progressivamente all’uomo, che fa conoscere se stesso, il suo volto”. Ecco, spesso noi preferiamo sostituire a questo volto un simulacro, cerchiamo consolazione in certi aspetti della religione che ci fanno sentire bene, ma che non ci fanno in definitiva stare bene.
Da musicista, devo dire che questo accade nella musica, dove molte persone non seguono la musica per compiere un cammino interiore, ma solo per mascherare ben altri problemi. Quanti ce ne sono! Abbiamo la tendenza ad usare cose buone in un modo improprio, per nascondere altre cose contro cui abbiamo difficoltà a combattere. Essere sinceri con se stessi, abitare nella verità, è un percorso di tutta una vita, e ci può costare anche l’isolamento sociale, l’incomprensione nella nostra stessa famiglia. Ma abitare nella menzogna? Cosa si prova a vivere nella menzogna per tutta la vita? Alcuni non se ne rendono neanche conto.
Dobbiamo fare in modo che quell’acqua che tutto spegne non serva a ravvivare il fuoco, ma a dissetarci, a fare in modo che possiamo sentirci profondamente ristorati e con il coraggio di ricominciare sempre il cammino. Nei salmi ci si offre l’immagine della cerva che anela ai corsi d’acqua. Ecco, dobbiamo coltivare quel desiderio per l’acqua che disseta, non per quella che serve a ravvivare il fuoco.
Guardate che il cammino alla consapevolezza spirituale è doloroso, perché bisogna liberarsi di atteggiamenti interni ed esterni che abbiamo coltivato per tutta una vita. Se abbiamo sempre camminato male, poi ci costerà camminare correttamente, perché non lo abbiamo mai sperimentato. E quindi forse continueremo a zoppicare, ma lo faremo perseguendo quanto è bello, buono e vero. Diceva sant’Agostino che è meglio zoppicare sulla via giusta che correre su quella sbagliata. Bisogna cercare di intraprendere un cammino di verità su noi stessi, accettando le sofferenze che ne derivano, perché solo questo ci permetterà di riappropriarci del nostro essere più intimo.




lunedì 20 aprile 2020

La verità vi farà liberi

Viviamo in un mondo in cui mostrare una facciata di comodo è spesso l’unico modo di sopravvivere, a volte è anche necessario. Non sempre siamo nelle condizioni di poter dire esattamente quello che pensiamo, senza il timore che le nostre parole possano causare più danni di quelli che intendono risolvere. Eppure il rischio di comportamenti del genere è molto elevato, in quanto a volte cominciamo a vivere in una realtà quasi parallela, in una realtà di finzione che a noi sembra quasi reale. Quante persone vivono nella finzione, quante persone si costruiscono un mondo comodo protetti (o almeno così loro credono) da titoli accademici, prestigio mondano, autorità e potere. Eppure ci viene detto che “la verità vi farà liberi”. Siamo qui nel vangelo di Giovanni 8, 31-42: “Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!». Gli risposero: «Il nostro padre è Abramo». Rispose Gesù: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l'ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato”. Il dialogo fra Gesù e i Giudei ci fa venire in mente che è vero quel detto che dice che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire. Essi preferiscono vivere nella loro realtà senza interrogarsi se le parole di quel Rabbi potessero avere qualche parvenza di verità.
Perché la verità è spesso scomoda, ci scuote, ci sposta dai nostri pregiudizi e dalle nostre assunzioni. La verità a volte non è simpatica, comoda, confortevole. Essa può abitare in persone che ci sembrano inadeguate. A volte essa è urtante, fastidiosa, respingente. Eppure non c’è cosa più alta della verità, senza la quale continuiamo ad abitare nelle tenebre.
Sant’Agostino, in La Trinità (8,2) afferma: “Comprendi dunque, se lo puoi, o anima tanto appesantita da un corpo soggetto alla corruzione e aggravata da pensieri terrestri molteplici e vari; comprendi, se lo puoi, che Dio è Verità. È scritto infatti che Dio è luce (1Gv 1,5), non la luce che vedono i nostri occhi, ma quella che vede il cuore, quando sente dire: è la Verità. Non cercare di sapere cos'è la verità, perché immediatamente si interporranno la caligine delle immagini corporee e le nubi dei fantasmi e turberanno la limpida chiarezza, che al primo istante ha brillato al tuo sguardo, quando ti ho detto: Verità. Resta, se puoi, nella chiarezza iniziale di questo rapido fulgore che ti abbaglia, quando si dice: Verità. Ma non puoi, tu ricadi in queste cose abituali e terrene. Qual è dunque, ti chiedo, il peso che ti fa ricadere, se non quello delle immondezze che ti hanno fatto contrarre il glutine della passione e gli sviamenti della tua peregrinazione?”. Ci dice il grande pensatore che non dobbiamo cercare di sapere cosa è la verità; ma cosa significa? Significa che la verità è un qualcosa che sentiamo, più che comprendiamo. Il peso della verità tutta intera è troppo oneroso per le nostre povere forze e quindi dobbiamo contentarci di partecipare ad essa ma senza la pretesa di possederla, come se la verità fosse sul cloud, riprendendo una metafora tecnologica. San Bonaventura da Bagnoregio ha detto: “È insito nell'anima l'odio della falsità; ma ogni odio nasce dall'amore, perciò è molto più radicato nell'anima l'amore della verità e specialmente di quella verità per la quale l'anima è stata fatta“. Ecco perché noi riconosciamo la verità istintivamente anche se non sempre siamo portati ad aderirvi spontaneamente, in quanto la verità, come detto sopra, costa e ci è spesso difficile da sopportare. Spesso aderire alla verità non ci fa vivere bene, ci causa di essere rigettati e respinti, ma senza verità siamo nella falsità e questo è quanto corrode la nostra anima nel modo più pericoloso. 
San Tommaso d’Aquino, riprendendo Aristotele, diceva che la verità è adaequatio rei et intellectus, l’adeguarsi dell’intelletto alla realtà della cosa. La verità quindi non è una creazione ma un abbandonarsi, un lasciarsi penetrare dal senso che già è lì presente. La verità è come la scultura nell’idea di Michelangelo, già presente in nuce nel marmo grezzo. Ma abbandonarsi alla verità è difficile, perché ci viene naturale fare resistenza, difenderci, cercare di sfuggirci. Preferiamo vivere nella schiavitù perché, come ho detto, la verità è difficile da sopportare. Essa porta fastidio, ci interroga continuamente, ci costringe a cambiare, a vedere dentro noi stessi. Ecco perché a volte coloro che riescono a portare vanti dei barlumi di verità sono strani, bizzarri, eccentrici. Essi per primi devono scontare il peso di quello che portano, spesso senza neanche saperlo. La verità non ê un pranzo di gala, ma una scalata su una montagna altissima, ma una scalata dopo la quale puoi veramente assaporare cieli e terre nuove.



domenica 19 aprile 2020

A ciascun giorno basta la sua pena

Lo sport preferito di questi tempi di pandemia e di chiusura forzata dentro casa è quello di prevedere cosa faremo dopo, e ci affanniamo nel cercare soluzioni per i problemi che certamente ci cadranno addosso. Ma del resto questo è un atteggiamento che noi abbiamo per tutte le cose della nostra vita, viviamo sempre nel futuro e nel passato per timore, anzi per paura di affrontare il presente. Perché c’è una differenza fra timore e paura, essendo il primo un giusto atteggiamento di fronte alla maestà divina mentre la paura a volte può sfociare in un panico continuo, che è un poco quello che possiamo osservare. 
Ecco che ci viene in soccorso una frase di Gesù, che ci dice “a ciascun giorno basta la sua pena”. Questa frase è nel contesto di un passaggio nel vangelo di Matteo (6, 25-34) che dice come segue: “Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.  Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena”. Eppure noi sappiamo come questo atteggiamento “pagano” sia veramente il più comune nella nostra società. Viviamo nel futuro o nel passato ma proprio non riusciamo a vivere nel momento presente.
“A ciascun giorno basta la sua pena”, perché noi in realtà non sappiamo cosa ci riserva il futuro e spesso rischiamo di renderlo negativo per le aspettative negative nostre che proiettiamo. È come quella persona che è sempre convinta di stare male, che presto avrà una malattia devastante, e che con le sue paure comunque fa ammalare veramente il suo corpo, in definitiva realizzando poi la sua previsione! Cioè si è causata il problema che aveva predetto. Ma non è l’unico caso, ce ne sono molti. Questo non significa che non dobbiamo usare prudenza nel provvedere per le nostre future necessità ma dovremmo cercare prima di tutto di vivere radicati in quello che siamo ora per poi proiettarci in quello che saremo e rivederci in quello che siamo stati. Perché anche il passato deve servirci per vivere più pienamente hic et nunc, non semplicemente per ricostruire “quello che è accaduto”, secondo il desiderio forse irrealizzabile dello storico tedesco Leopold von Ranke. 

Don Luigi Maria Epicoco così commenta il passaggio di Matteo: “Chi si pre-occupa è uno che vive sempre un passo in avanti rispetto la vita e quindi non ha tempo di gustare la vita. Chi si pre-occupa è uno che vive con l’ansia di cosa dovrà accadere e non con la gratitudine di ciò che accade. Dovremmo imparare un po’ tutti a “occuparci” e a non a “preoccuparci”. Dovremmo tornare tutti un po’ alla realtà e al presente. Chi si preoccupa non vede più il volto della moglie o del marito, dei figli o degli amici, del cielo azzurro o della splendente pioggia d’estate. Chi si preoccupa vede solo problemi da risolvere e non cose per cui comunque arrivare a sera grati. Chi si preoccupa non ha tempo di sorridere perché “la vita è una cosa seria”. E’ così seria che ci sono giorni in cui uno si domanda se poi valga davvero la pena vivere così. Ha ragione allora Gesù a ricordarci una cosa semplice: “Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena”. E ogni giorno ha la sua grazia”. Guardate che è difficile vivere il momento presente, è forse una delle cose più complicate e che più mostrano l’imperfezione della nostra vita spirituale. Ma la scalata alla montagna che è Dio si compie con una infinità di passi nel momento presente. Ma noi abbiamo paura di affidarci a Dio, abbiamo tutti paura di questo, io per primo. Benedetto XVI nell’udienza generale del 24 ottobre 2012 diceva: “La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù, donando la possibilità della salvezza. Avere fede, allora, è incontrare questo «Tu», Dio, che mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel «tu» della madre. E questa possibilità di salvezza attraverso la fede è un dono che Dio offre a tutti gli uomini. Penso che dovremmo meditare più spesso - nella nostra vita quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche –sul fatto che credere cristianamente significa questo abbandonarmi con fiducia al senso profondo che sostiene me e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura. E questa certezza liberante e rassicurante della fede dobbiamo essere capaci di annunciarla con la parola e di mostrarla con la nostra vita di cristiani“. E questo dono lo continuiamo a rifiutare perché preferiamo vivere nella paura. Preferiamo essere schiavi di noi stessi.

venerdì 17 aprile 2020

Alleluia, non allegro ma solenne

Nel tempo in cui non possiamo partecipare alla Messa, ci viene da riflettere sulle cose che ci mancano, sulle cose a cui non possiamo attendere personalmente. Una di queste, tra tante nella Messa, è l’acclamazione al vangelo. Io ho spesso riflettuto su questo momento, dicendo anche cose che possono essere giudicate come impopolari ma che per me sono profondamente vere. Una di queste riguarda il carattere che viene dato a questo momento liturgico in tante parrocchie, l’allegria, la festa, quasi il danzante. Ma in realtà queste sono mondanizzazioni di questo momento liturgico, il cui carattere corrisponderebbe al grave e solenne, che non vuol dire non gioioso. La gioia cristiana non è sfacciata, non è la gioia mondana. Gesù dice che ci lascia la pace, ci da la sua pace, che non è il pacifismo ma la riconciliazione di anime e cuori nella pace celeste. 
Se guardiamo al canto gregoriano, ci accorgiamo come gli alleluia siano gravi e solenni, ma nel contempo gioiosi. Non si ricerca una gioia puramente umana, ma tutto viene sempre trasfigurato in senso spirituale. Voglio riprendere un bel commento che lo scrittore Camillo Langone fece nel 2013 in occasione dell’uscita di un mio libro sulla liturgia su Il Foglio: “Santa Cecilia, prega per Aurelio Porfiri che essendo un musicista romano fedele a Santa Romana Chiesa vive e lavora a Macao. Nel “Canto dei secoli” (Marcianum Press) scrive ovviamente di musica sacra ma presenta criteri validi per giudicare la cattolicità di ogni altro linguaggio artistico, pittura e architettura comprese. La chiesa, dice Porfiri, dev’essere contenuto e non contenitore: ad esempio, l’organo è il suono della chiesa-contenuto (essendo intrinseco al sacro), la chitarra della chiesa-contenitore (essendo intrinseca alla musica profana e gettata nella liturgia dall’esterno). Ma la pagina che preferisco è la numero 80, laddove l’oggettività si fa anche soggettività, anche gusto. Porfiri è contrario a una musica liturgica che dia sempre e comunque una “rappresentazione della vita come gioia”. Anche a me, in chiesa, la musica gioiosa rende nervoso. Santa Cecilia, prega per noi poco amati amanti della musica liturgica austera, severa, perfino triste, noi che in chiesa cerchiamo ragione del dolore perché le ragioni del piacere si trovano dappertutto”. Da ottimo scrittore qual è Langone, ha saputo sintetizzare n poche righe quello che noi dovremmo aver capito. Visto che il canto gregoriano è il modello della musica liturgica, come ribadito anche da papa Francesco, ascoltiamo i tanti alleluia, per esempio Alleluia-Iustus, o Alleluia-Pascha nostrum e cerchiamo di capire che la gioia a cui si cerca di arrivare è quella dello spirito, non quella soltanto dettata dai fremiti del corpo. 
Il papa Francesco, in una delle sue messe a santa Marta nel 2018 spiegava la gioia cristiana, e così la sua omelia veniva riportata: “«La gioia non è vivere di risata in risata, no, non è quello» ha messo in guardia il Pontefice. E «la gioia — ha aggiunto — non è essere divertente, no, non è quello, è un’altra cosa». Perché «la gioia cristiana è la pace, la pace che c’è nelle radici, la pace del cuore, la pace che soltanto Dio ci può dare: questa è la gioia cristiana». Il Papa ha fatto presente che «non è facile custodire questa gioia». E «l’apostolo Pietro dice che è la fede che la custodisce: io credo che Dio mi ha rigenerato, credo che mi darà quel premio». Proprio «questa è la fede e con questa fede si custodisce la gioia, si custodisce la consolazione». Dunque «la gioia, la consolazione, ma soltanto è la fede a custodirla»“. La gioia cristiana non è divertimento, frenesia di movimento e di battiti di mani. Ho già dedicato un altro articolo a questi alleluia che spesso ci ritroviamo in chiesa, da quello detto “delle lampadine” ad altri. Abbiamo proprio deviato dalla retta spiritualità cristiana applicata alla liturgia. Parlando nella quarta domenica di quaresima del 2007, nel suo Angelus Benedetto XVI diceva: “Oggi la liturgia ci invita a rallegrarci perché si avvicina la Pasqua, il giorno della vittoria di Cristo sul peccato e sulla morte. Ma dove si trova la sorgente della gioia cristiana se non nell’Eucaristia, che Cristo ci ha lasciato come Cibo spirituale, mentre siamo pellegrini su questa terra? L’Eucaristia alimenta nei credenti di ogni epoca quella letizia profonda, che fa tutt’uno con l’amore e con la pace, e che ha origine dalla comunione con Dio e con i fratelli“. Quindi la vera letizia non è stare bene con noi stessi, festeggiare con gli amici con canti insulsi, ma radicarsi nella liturgia stessa, provando quella gioia che ci eleva alle bellezze della letizia celeste. Nel suo Discorso 337 per l’edificazione di una chiesa, Sant’Agostino che ha dedicato anche stupende al giubilo (jubilus) nel canto, dice: “Pertanto, come questo edificio visibile è stato costruito per radunarci materialmente, così quell'edificio, che siamo noi stessi, è costruito per Dio che vi abiterà spiritualmente. Dice l'Apostolo: Santo è infatti il tempio di Dio che siete voi. A quel modo che costruiamo questo con ammassi di pietre, edificheremo quello mediante atteggiamenti di vita che vi corrispondano adeguatamente. Questo si dedica ora, nel corso di questa nostra visita, quello sarà dedicato alla fine del tempo con la venuta del Signore, quando questo nostro, corruttibile, si vestirà di incorruttibilità, e questo nostro, mortale, si vestirà di immortalità: conformerà infatti il corpo della nostra umiliazione al suo corpo glorioso. Considerate infatti il senso che vuole esprimere nel Salmo della dedicazione: Hai mutato il mio lamento in festa per me; hai lacerato la mia veste di sacco, mi hai rivestito di un abito di gioia: perché la mia gioia sia per te un canto, ed io non sia ferito. Infatti, mentre veniamo edificati, la nostra miseria rivolge a lui i suoi gemiti; ma quando saremo dedicati, la nostra gloria sarà un canto per lui: in realtà la costruzione comporta fatica, la dedicazione apporta letizia. Finché si cavano le pietre dai monti e gli alberi dai boschi, si dà loro forma, si sgrossano, si combinano insieme, è fatica e preoccupazione; ma quando si celebra la dedicazione dell'edificio compiutamente realizzato, al posto delle fatiche e delle preoccupazioni, c'è gioia e sicurezza. Così pure quanto alla costruzione spirituale: chi l'inabita, Dio, non sarà presente per qualche tempo, ma per l'eternità. Mentre gli uomini sono allontanati da una vita di infedeltà e portati alla fede, mentre viene reciso e portato via tutto ciò che in essi è l'opposto del bene e perversione, mentre si fanno connessure appropriate, senza attrito e con devozione, quante tentazioni non si temono, quante tribolazioni non si tollerano? Però, al sopraggiungere del giorno della dedicazione del tempio dell'eternità, quando ci si dirà: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo, quale mai sarà l'esultanza, quale la perfetta sicurezza? Sarà il canto della gloria, la debolezza non si sentirà ferita. Quando ci si rivelerà colui che ci ha amato e ha dato se stesso per noi, quando colui che si mostrò agli uomini in quel che si fece nella Madre, si manifesterà loro Dio Creatore secondo quel che era nel Padre, quando egli, eternamente presente nella sua casa, all'entrarvi la troverà perfetta, adorna, costituita nell'unità, nella veste dell'immortalità, colmerà di sé tutte le cose e in tutte risplenderà, così che Dio sia tutto in tutti“.
La gioia che ricerchiamo è la gioia che viene da Dio, non quella puramente umana che se può essere gradevole al di fuori del Tempio, all’interno suona vuota e stonata.



giovedì 16 aprile 2020

I cori al tempo del coronavirus

Ho a che fare con i cori e con la musica corale da quasi quarant’anni, quindi un tempo abbastanza grande per poter dire che l’attività corale ha riguardato la maggior parte della mia esistenza. Quindi ora mi viene da riflettere sulla situazione che si verrà a creare per via della pandemia che stiamo vivendo, una situazione che ci sorprende tutti, ci amareggia, ci spaventa, ma anche ci fa interrogare sul modo in cui sarà possibile ricominciare una volta che l’incubo sarà finito.
Infatti il nuovo inizio non sarà semplice, ora che siamo terrorizzati dal fatto di essere troppo vicini a qualcuno, di potere essere investiti dai famosi droplets ed essere magari infettati da qualcuno che non mostra nessun sintomo. Perché in realtà ora vediamo tutti quanti come potenziali pericoli, e noi siamo anche potenziali pericoli per gli altri. Certamente il cantare in coro, dal punto di vista di una potenziale diffusione, non è un’attività delle più sicure, in quanto richiede vicinanza fra le persone, si emettono suoni che portano anche emissioni dei famosi droplets, delle goccioline. Quando si è in un coro di 40,50 persone, come poter essere sicuri che tutti quanti sono esenti da questo virus? Poi pensiamo che, grazie a Dio da un certo punto di vista, in molti dei nostri cori ci sono parecchie persone anziane. Come proteggerli da qualcuno che involontariamente e senza nessun sintomo potrebbe essere portatore di questo coronavirus che per un anziano, come ormai sappiamo benissimo, è molto più pericoloso?
Sembrano domande assurde, e lo sono se pensiamo soltanto a quello che eravamo due mesi fa. Eppure questo evento cataclismatico, ha sconvolto tutta la nostra vita e minaccia di sconvolgere anche il nostro futuro. Non possiamo non pensare a come proteggerci finché questo virus non sarà definitivamente sconfitto, cosa che tutti ci auguriamo. Perché certamente, non vogliamo rinunciare alle nostre attività corali, che sono tanto importanti per molti di noi, non solo dal punto di vista della lode a Dio, ma anche per la socializzazione. Come ho già detto molte altre volte, i cori sono delle piccole società, dove si incontrano amici, si incontrano futuri partner per la vita, si incontrano persone importanti che diventano dei punti fermi della nostra esistenza. Certamente non vogliamo rinunciare a tutto questo, ma dobbiamo capire come poter affrontare il blocco psicologico che ci è stato creato in questi mesi in cui siamo stati terrorizzati con l’idea che la vicinanza può essere potenzialmente pericolosa non solo con estranei, ma anche all’interno della nostra stessa casa.
Ho visto alcuni tentare, grazie alle esperienze e alle possibilità offerte dalla tecnologia, la strada del coro virtuale. È certamente qualcosa su cui si potrà riflettere, un tipo di attività che apre delle possibilità molto interessanti in una prospettiva futura, futuro in cui le tecnologie saranno sempre più presenti nella nostra vita quotidiana. Ma queste nuove possibilità non devono poter impedirci la prossimità con gli altri, incontrare le persone, cantare uno vicino all’altro. Anche se non lo vogliamo ammettere, in tutti gli ambiti della nostra vita noi abbiamo bisogno degli altri, abbiamo bisogno di confrontarci con gli altri, di ridere con gli altri, di cantare con gli altri, di parlare con gli altri. Noi siamo animali sociali, e l’attività corale non sfugge a questa legge. Quindi, bisogna pensare a come poter continuare a fare quello che in tante parti del mondo si è sempre fatto, cantando tutti insieme e facendo esperienza della bellezza della musica corale, senza che questo trauma che ci è capitato possa bloccarci e le paure possano costituire un grave ostacolo.
Bisogna ritornare ad incontrarsi, bisogna cercare una via per poter essere quello che siamo sempre stati. L’importanza di certe cose si capisce soltanto quando queste cose vengono a mancare, come spesso si dice. Ecco, ora è proprio il tempo di capire quanto era bello poter incontrare i nostri amici del coro, cantare con loro, poter incontrarsi la domenica a Messa oppure per un concerto o un’esibizione da qualche parte. Tutto questo ora ci è completamente negato, e non possiamo nascondere che ci manca, lo vogliamo indietro. Non possiamo darla vinta al coronavirus, non possiamo permettere che il 2020 un virus possa dettare il modo in cui l’intera umanità deve vivere. Certo, consideriamo questa una interruzione temporanea, un momento in cui siamo stati presi di sorpresa e non abbiamo reagito adeguatamente. Eppure, bisognerà cercare di capire come ripartire, anche nell’ambito della musica corale, che riguarda milioni di persone, non lo dimentichiamo. Quindi, prendendo tutte le precauzioni del caso, bisognerà cercare di mettersi alle spalle questo tempo orribile. La paura è una cattiva maestra. Ma se ci verrà imposto l’uso delle mascherine, per motivi di sicurezza, questo sarà un altro ostacolo per poter riprendere le nostre attività corali perché certamente cantare con le mascherine non è la stessa cosa. Dobbiamo veramente pensare a come poter mantenere il nostro coro senza mettere in pericolo noi e gli altri. Non è semplice in questo momento, anzi è estremamente complesso visto che siamo preda di notizie allarmanti che ci arrivano ogni minuto da tutti i mezzi di comunicazione.
Non ci facciamo incatenare la paura, noi siamo più grandi della paura, e il nobile scopo di preservare l’attività Corale per lodare Dio ma anche per farci crescere, deve portarci a trovare soluzioni creative ed efficaci, soluzioni che possono essere implementate con sicurezza e in modo che nessuno si senta minacciato da potenziali pericoli provenienti da persone incolpevoli. Non sarà semplice all’inizio, anzi sarà molto complesso, perché veniamo da un tempo di prova veramente duro, un tempo in cui la nostra psiche è stata sottoposta ad una pressione quasi intollerabile. Ma ce la faremo, sono sicuro che ce la faremo, per il rispetto che dobbiamo noi e a coloro che ci circondano, ce la dobbiamo fare. 




mercoledì 1 aprile 2020

Ripensare il segno di pace

Devo ammettere che io ho sempre avuto qualche problema con il modo in cui viene concepito nella Messa lo scambio della pace. A mio avviso, specialmente negli ultimi decenni, questo gesto ha perduto il suo significato originario, divenendo quasi un segno di cortesia sociale. In questo tempo, in cui siamo chiamati al distanziamento sociale, forse ripensare a questo gesto non sarà poi tanto male. In effetti, prima che si sospendessero le messe, una delle restrizioni riguardava proprio quella dello scambio della pace. L’ultima domenica prima della sospensione delle Messe, sono andato ad adempiere al precetto festivo in una parrocchia vicino alla mia abitazione. C’era già pochissima gente, per la gran parte persone anziane, che spesso tossivano senza neanche coprire la bocca. Immagino, che scambiarci il segno della pace in quelle condizioni non era molto prudente sia per me ma anche per loro, perché abbiamo imparato a diffidare delle persone che possono essere apparentemente sane ma in realtà sono portatori del virus.  Ora, non dico che la liturgia debba essere regolata basandosi sul virus, ma credo che questa esperienza possa farci veramente riflettere se alcuni gesti introdotti di recente siano stati veramente recepita in modo giusto o no. Credo che uno dei simboli di questo sia senz’altro lo scambio della pace. Spesso questo gesto enfatizza una dimensione sociale della Messa a scapito di quella più spirituale. Ci sono persone che fanno il giro di tutta la Chiesa, che sembrano non aspettare altro. Prescindendo dal virus, credo questo sia veramente fuori luogo. Oggi, per via di questo evento tragico che stiamo vivendo, abbiamo ancora di più la consapevolezza di come certi atteggiamenti possono aiutare a diffondere malattie e affezioni varie. Direte che siamo oramai ossessionati da quello che stiamo vivendo, e certamente non sarebbe un’osservazione sbagliata. La congregazione per il culto divino approvato un poco di anni fa a regolare questo momento della Messa, ma come per molte altre cose, queste poi non arrivano veramente ai fedeli. Credo di non aver mai ascoltato un sacerdote avvertire i fedeli che non dovevano girare per tutta la chiesa per scambiare il segno di pace ma soltanto limitarsi alle persone a loro vicine. Io ho sempre prediletto il modo cinese di espletare questo momento liturgico, inchinandosi alle persone e al sacerdote senza contatto fisico. Questo limita le esagerazioni ed è ugualmente molto dignitoso.