mercoledì 23 dicembre 2020

Dante Alighieri e la bellezza


Come visto, sul finire del periodo medioevale si cominciavano ad appalesare diverse tendenze “estetiche”. Allora, al tempo in cui si cominciavano le riflessioni sulla bellezza anche nella sua accezione materiale e corporea, non soltanto spirituale, alcune correnti di pensiero cominciavano a farsi strada e a pretendere l’ossequio dei dotti. Duns Scoto, celebre pensatore, ci da una definizione dell’arte di questa natura: L’arte si trova in una tale relazione con i suoi prodotti, come la prudenza con l’azione, perché è la giusta concezione e di ciò che verrà prodotto (Coll. I, n. 19). Quindi, se ben intesa questa sentenza, l’arte è scovare l’essenza nei suoi soggetti. In questo senso, verrebbe da dire, l’arte è più vera del vero perché non si ferma al livello apparente delle cose ma le penetra in una dimensione essenziale che all’occhio che guarda, sfugge. Questa constatazione deve essere intesa rettamente e meditata in tutte le possibili implicazioni, teologiche, fisiologiche, filosofiche ed estetiche. Questa riflessione è fondante in ogni discorso che ha come oggetto quella strana parola, “arte”, così difficile da definire.

Io penso sarebbe anche il caso di accennare qui alla fondamentale differenza che esiste fra guardare e vedere. Il guardare attiene ad un processo fisico, per cui una certa qualità di luce viene filtrata dagli occhi e, con un mirabolante processo cerebrale, si trasforma in immagini. Il vedere è la capacità di fare senso delle cose, non necessariamente attraverso la sola vista. Il vedere interpreta i dati forniti dal guardare. Ora, in che modo il dato esterno influenza quello interno? In che modo quello che è al di fuori si fa senso all’interno della nostra coscienza? Guglielmo di Ockham ci dice che Bellezza è una propria proporzione delle membra in congiunzione con un corpo sano (“Summulae in libros physicorum”, III, c. 17, p. 69). In che modo la definizione di Guglielmo si fa senso nell’ottica del vedere? In che modo si passa dal guardare al vedere? Queste questioni sono molto più complesse di quello che si pensa. Non basta un semplice appello al senso critico per garantire questo passaggio da una dimensione all’altra. Ma la differenza fra queste due dimensioni è per me uno dei pilastri della riflessione sull’estetica e sulla teologia. Ancora Guglielmo di Ockham ci dice: L’idea non è qualcosa di reale, perché è un nome connotativo e relativo. L’idea è qualcosa concepito dalla mente attiva, che, nel guardare ad essa, può produrre qualcosa che esiste nella realtà” (Quaestiones in IV Sententiarum Libros I, d. 35, q. 5). Quello che  chiama la “mente attiva” è ciò che da senso e forma alla realtà che noi viviamo, è il prodotto del vedere. Ora, come chiamare questo elemento vitale oggi è una questione su cui non è facile dare una risposta. Ma già nella riflessione tardo medioevale questo elemento era stato chiaramente individuato. Noi proviamo piacere in una giusta proporzione delle cose, ma da dove scaturisce questo piacere nel processo cognitivo che legge (guarda) e interpreta (vede) la realtà? La risposta a questo interrogativo non può che pervadere i secoli successivi.

Una delle grandi voci che nel XIII secolo contribuiranno alla riflessione sulla bellezza e la teologia è quella di un uomo che non era tecnicamente un filosofo ma faceva anche filosofia, non era tecnicamente un teologo ma faceva anche teologia (e grande teologia), era un’umanista straordinario e poeta sommo: Dante Alighieri. Dante (1265-1321) è considerato il più straordinario poeta italiano di ogni epoca, la sua Divina Commedia è un bestseller che non cessa mai di stupire per la sua profondità e bellezza.  La fortuna di Dante, non solo nel mondo letterario nostrano, è qualcosa che lascia stupiti. Mi sono sorpreso molte volte nel costatare legioni di dantisti oltreoceano e il rispetto che in ogni luogo si porta per questo gigante della letteratura mondiale.

Il concetto che è centrale alla riflessione dantesca è quello di “amore”. L’amore era la donna amata, ma essa viene talmente spiritualizzata che non si sa se si parla di una bellezza in carne o di un angelo. Nel notissimo sonetto “Tanto gentile e tanto onesta pare” (Vita Nova) questa visione della bellezza dell’amore (o dell’amore della bellezza) viene fuori potentemente. Gia’ nel primo e nel secondo verso Tanto gentile e tanto onesta pare, la donna mia quand’ella altrui saluta... c’e’ un tipo di lettura che credo andrebbe proposta. La parola “pare” che nell’italiano moderno interpretiamo come “sembra” qui è più simile al verbo “apparire”, quindi “Tanto gentile e tanto onesta appare...”. La visione delle virtù morali come segno di bellezza, già trovata in Agostino e Tommaso d’Aquino e non assente in tutta la tradizione estetico-spiritualistica non da ultimo con Bernardo, qui si incarna nella donna amata, che simboleggia il bello ma che in realtà nella sua materialità è raggiungibile. Ciò che è bello non è veramente la donna amata, ma l’amore in se stesso che fa bello ciò che tocca, l’amor che move il sole e l’altre stelle”.

Quindi la donna “appare”, come una celeste visione. Ma cosa può comprovare questa interpretazione? I successivi due versi “ch’ogne lingua deven tremando muta,/ e li occhi no l’ardiscon di guardare” Se si leggono con attenzione questi versi e ci si domanda a quale bellezza si riferiscono, non ci si può decidere se il poeta stia parlando di una vera donna od una apparizione celeste: la sua bellezza è così sfolgorante che l’uomo è ridotto al silenzio, non per sua volontà ma quasi per una volontà superiore (infatti lui vorrebbe dire qualcosa ma la lingua tremante gli impedisce la parola). Gli occhi non ardiscono di guardarla: non sembra una contraddizione? Se una cosa è bella perché non guardarla? Ma qui abbiamo un paradosso, che è un’apparente contraddizione.  Qui Dante è come Elia (Libro dei Re) che alla presenza del Signore si copre il volto. Perché vuole vedere ciò che non può vedere? Perché non vedendo, vede. Credo sia interessante analizzare questo punto, del vedere la bellezza con una visione che non è meramente quella intellettuale, è quasi un’intuizione che precede il dato sensoriale. E questa bellezza, nella riflessione dantesca, è di origine divina ma non in un senso spiritualistico, essa non esclude l’elemento umano anzi lo suppone. In questo senso non mi trovo molto d’accordo con il commento a questo sonetto di Luciano Rebay quando dice che Beatrice è ritratta non come un essere umano ma come un angelo la cui presenza in terra è un miracolo” (Luciano Rebay, “Introduction to Italian Poetry” , Courier Dover Publications 1991, pag. 25). La realtà di questo sonetto mi sembra molto più complessa di quello che si può dedurre da questo commento. Certo l’elemento spiritualizzante vi è presente in modo estremamente forte ma non credo vada letto in senso spiritualistico e credo che la lettura non in questo senso è garantita dal poeta stesso.

Ricordiamo il passaggio che può sembrare un poco enigmatico che si trova nel trentesimo canto del Purgatorio  (127-129) in cui Beatrice, che si rivolge al poeta in viaggio nel mondo soprannaturale dice: Quando di carne a spirto era salita,/ e bellezza e virtù cresciuta m’era,/ fu’io a lui men cara e men gradita. In questo passaggio la donna ricorda come, dopo il suo passaggio nell’altro mondo, il poeta si era dato ad una nuova donna. Questo cambiamento di stato aveva accresciuto bellezza e virtù in Beatrice. Quindi, la prospettiva che mi sembra qui presentata non è tanto quella che l’amore divino riflette quello umano, ma semmai l’amore umano è via  a quello divino. Anche se può non sembrare, ma c’è un cambiamento deciso di prospettiva. L’amore umano e divino formano un mistero che è di difficile decifrazione.

Quando la donna oggetto del sonetto si avanza, essa è consapevole delle lodi che attira ma non se ne inorgoglisce perché essa è “d’umiltà vestuta”. Anche qui echeggia il vangelo con Gesù che invita a essere miti ed umili di cuore. Quindi la bellezza che il poeta loda in una donna di cui era certamente innamorato è così bella che appare in tutta la sua nuda semplicità. E la donna, si mostra così bella, che sembra venuta a mostrare un miracolo, cioè la sua stessa bellezza. La bellezza che per le scale/ de l’etterno palazzo più s’accende, come hai veduto, quanto più si sale (Paradiso XXI 7-9). Qui credo bisogna essere attenti a non fare un semplice errore (dal mio punto di vista); non è che la bellezza più si spiritualizza e più è bella, ma il discorso è che essa più la si penetra, più nell’atto di questo essere penetrata si spiritualizza (nel senso di sprigionare un’essenza spirituale, non di perdere la sua valenza materiale) e più si fa bella come frutto di questo processo vitale. Essa è così bella che attraverso gli occhi da un grande piacere al cuore che ’ntender non la può chi no la prova”. Chi non prova questa esperienza non la può capire. Mi sembra anche un discorso sui limiti del discorso artistico ed estetico. La bellezza non si può spiegare ma la si deve provare, la deve vivere nel suo manifestarsi. Questo credo ci potrebbe condurre, in ogni campo, al discorso sui limiti del teorizzare che però in questo caso sarebbe troppo complesso affrontare.

Nell’ultima terzina ritorna quel “par”, in questo caso riferito ad uno “spirito soave”, che il poeta ci dice pieno d’amore e che all’anima dice “sospira”. Soffermiamoci su questa ultima parola con un poco di attenzione. Essa deriva dal latino e significa “respiro dal profondo”. La bellezza che si comunica al cuore (in questo caso visto come sede dei sensi e anche dell’uomo intellettuale, come nella Bibbia, non nell’accezione tarda) tramite uno spirito soave che è pieno d’amore da un messaggio all’anima. Quale è questo messaggio? Respira dal profondo. Sembra strano? Forse non lo è. Il respirare è atto vitale per eccellenza, è ciò che ci fa vivere. La bellezza, rappresentata qui da Beatrice, risveglia la nostra vita, ci permette un respiro dal profondo perché fa sì che noi possiamo essere ciò che veramente siamo, la bellezza ci fa essere noi stessi, il vero noi stessi, non semplici automi guidati da impulsi e istinti.  La bellezza nutre una sorta di respiro profondo, che come sappiamo sarà anche una tecnica molto usata in tradizioni mistiche anche non riconducibili alla tradizione giudaico cristiana. Al centro c’è Dio, ma al centro di Dio c’è l’uomo.

Questo messaggio della centralità dell’uomo nel piano di Dio mi sembra quello che più bisogna meditare nella riflessione dantesca e la bellezza non può che essere via a questo. Essa è via e meta, in un certo senso, in quanto essa conduce ma è anche il premio di chi è condotto. In che modo questa centralità vada intesa, questo è un altro problema ed è di non facile soluzione, malgrado si possano spendere molte parole su questo argomento. La bellezza che porta a Dio porta anche all’uomo e lo vivifica, secondo Dante, in una maniera che lo fa essere più se stesso. Naturalmente l’eco perenne di sant’Agostino non cessa di far sentire i suoi rintocchi. Tornare in se stessi, guardare alla bellezza nella sua essenza vera. Noi purtroppo siamo racchiusi fra gli eccessi del carnalismo e dello spiritualismo e facciamo fatica a sollevarci da questi. Ecco perché i giganti che ci hanno preceduto nel passato sono per noi un faro non per guardare, ma per vedere.




































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