lunedì 7 dicembre 2020

La Bellezza nella Bibbia


 Nel libro della Genesi, primo capitolo versetti da 1 a 4, si dice: “In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: “Sia luce!” E la luce fu.  Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre”. Ora, si potrebbe dire che cosa c’entra la bellezza con questo testo. E invece c’entra, c’entra eccome. Si sarà sorpresi di vedere come la bellezza è all’origine di quello che siamo sia come esseri materiali ma anche come esseri spirituali. Quindi cerchiamo di capire qual è la questione che viene fuori da questo testo (in questo paragrafo rielaboro un mio scritto apparso anni fa sulla rivista Nuova Alleanza poi anche utilizzato da me in altri contesti). 

La questione si annida nel testo ebraico. Noi leggiamo che la luce era cosa buona, a questa parola, “buona”, diamo un senso morale, come è proprio della nostra lingua. Ma la parola originale ebraica che l’italiano “buona” traduce ci dice qualcosa di più e di diverso. Questa parola è “Tôb”. Ora, il significato di “Tôb” è qualcosa di più che semplicemente buono. Sembra più vicino alla parola “bello”. Se leggiamo le varie definizioni che si trovano in un dizionario della lingua ebraica, troviamo anche quella di “buono” nel senso di “giusto” (morale, quindi); ma il tono generale di questa parola è più riferito all’accezione di piacevole, ben ordinato, che delizia. Ma per molti questa non sembrerà una prova sufficiente che permette di allargare il senso di “Tôb” alla dimensiona estetica, più che a quella etico-morale. Allora ci servono altre attestazioni di questo fatto. E, per fortuna, le abbiamo.

Quando l’Antico Testamento fu tradotto dall’Ebraico al Greco, ci fu la necessità di trovare un termine corrispondente per il nostro “Tôb”. Ora, in Greco, questo concetto di “buono” viene espresso con tre parole differenti: c’è il bene in senso più morale che è Agathós; poi abbiamo il buono in senso di “utile”, reso con la parola Chrêstós; e infine abbiamo il buono con il senso di “bello”, reso con Kalós. Quale sarà la parola scelta per sostituire la nostra parola ebraica “Tôb”? Avrete già capito che è Kalós. Quindi abbiamo una doppia attestazione del significato di quel “vide che era buono” nel senso di “vide che era bello”. 

Questo da il via ad una ricerca di una Teologia della bellezza. E molti teologi si occuperanno di questo, specialmente nel nostro secolo. Per citarne solo alcuni non possiamo dimenticare Hans Urs von Balthasar, Pavel Florenskij, Paul Evdokimov, Divo Barsotti, Bruno Forte, Crispino Valenziano, Pierangelo Sequeri ed altri. Non dico che io mi senta ispirato da tutti questi teologi, ma non si può negare che essi hanno dedicato fatica intellettuali a ricercare questo tema del rapporto fra bellezza e teologia, fra estetica ed estatica. Quindi non possiamo fare a meno di parlarne e di tenere presenti anche i contributi che hanno apportato a questa disciplina. Insomma dobbiamo occuparci più approfonditamente di Teologia della Bellezza.

Mettiamo qualche punto fermo in questa Teologia della Bellezza (seguendo anche suggestioni dal bel libro di John Navone Toward a Theology of Beauty). Noi riconosciamo che Dio è il Creatore. In conseguenza egli conosce, ama e trova diletto in tutte le creature. Anche noi, fatti a Sua immagine, possiamo conoscere la verità (che viene da Dio), amare la bontà (che viene da Dio) e trovare diletto nella bellezza di tutte le cose (anche proveniente da Dio). La conseguenza è che nel conoscere, amare e dilettare noi possiamo vedere la fonte di tutto questo, il Creatore. Non bisogna dimenticare che Egli è la vera fonte di queste cose, Egli è la vera Bellezza che crea bellezza. Attraverso alcuni gradi di partecipazione a questa Bellezza originaria ed originante noi possiamo ritrovarci in Dio. Questa partecipazione alla Bellezza, anche nelle sue manifestazioni terrene orientate alla Bellezza originante, è una forma di conoscenza probabilmente superiore alla conoscenza intellettuale, perché più diretta. È la “Via pulchritudinis”. 

Nella prima lettera ai Corinzi (13, 12) san Paolo ci dice che noi qui vediamo “come in uno specchio”. Solo nella prospettiva dell’eternità noi vedremo pienamente quello che ora vediamo solo parzialmente. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica ci dice che la Chiesa qui contempla, “come in uno specchio”, Dio. Così la nostra percezione della bellezza risente della nostra condizione terrena.

Noi siamo fatti ad immagine del Padre, quindi, siamo conformati a questa Bellezza originaria che proviene da Dio, che è Dio, Creatore di tutte le cose e di tutto il bene che ha esistenza. L’uomo, facendo la volontà del Padre, si conforma al suo atto creativo e si mette alla scuola di questa Bellezza rivelata da Dio stesso. La volontà del Padre è “bella” nel senso che è contenuta nel Mistero del suo amore ed è significata nelle espressioni di questa bellezza che a noi vengono presentate. Tutto l’atto creativo partecipa di questa bontà/bellezza originaria (vide che era bello). Dio si compiace nella bellezza di quello che ha creato. Questo è centrale. Per ritrovare questo compiacimento del Padre (il suo piano sull’umanità) dobbiamo riscoprire questa Bellezza, anche nelle sue manifestazioni parziali.

Ma qual è l’atto più radicale di conformità alla volontà del Padre? Il sacrificio del Figlio, compiuto per salvare gli uomini e restaurare l’ordine originale della Creazione. Nel Cristo crocifisso risplende una bellezza potente perché in Lui la volontà del Padre viene significata nel modo più efficace. L’umanità può rifiutare (e, in effetti, in parte ha rifiutato) questo piano di salvezza. Quindi la bellezza spesso può essere deforme, che significa non conforme al piano del Padre. Occorre quindi riscoprire nel Sacrificio del Figlio l’esplosione di questa Bellezza originaria, una Bellezza che è paradossale ma che va meditata e vissuta. Gesù dice in Giovanni (12, 32) che quando sarà innalzato attrarrà tutti a se. Ecco la prima meditazione estetica che ci viene direttamente dalla parole del Salvatore. La bellezza di Cristo è quella che ci salva.

Roberto Grossatesta diceva già in epoca medioevale: “Bonum enim dicitur Deus secundum quod omnia adducit in esse et bene esse et promovet et consummat et conservat, pulchrum autem dicitur in quantum omnia sibi ipsis et ad invicem in sui identitate facit concordia. [Dio infatti è detto buono in quanto conduce ogni cosa all’essere e al rispettivo bene e la fa progredire e la porta a compimento e la conserva in questo stato, si dice inoltre bello in quanto produce l’armonia fra tutti gli oggetti e all’interno di ciascuno di essi nella propria identità.] (Roberto Grossatesta, Commentario a Dionigi in Pouillon, 1946: 321 in U. Eco, Arte e bellezza nell’estetica medievale). Insomma, la bellezza in Dio è quella bellezza che riconduce tutto ad un suo ordine, ad un suo senso e ad una sua integrità. Nel Cristo crocifisso, sfigurato, vediamo già in nuce la bellezza che produrrà il suo sacrificio in quanto necessario per un ritorno all’ordine della creazione.

Il filosofo Stefano Zecchi così ci pone la questione: “Se la bellezza salverà il mondo, quale bellezza lo salverà? Cosa può significare associare la parola bellezza a quella di salvezza? Nel verbo salvare è espresso il concetto di interezza e di integrità. Da un punto di vista etimologico, poi, l’antico significato latino di salvus è stato assunto da totus. Salvare, dunque, per restituire integrità tra le parti che tendono a dissociarsi, per ricomporre la totalità. Quest’idea di armonizzazione, di costruzione di un ordine e di un equilibrio, appartiene proprio al concetto di bellezza. Ma, bisogna aggiungere, a un concetto convenzionale di bellezza” (Stefano Zecchi, L’artista armato). Ma è proprio partendo da ciò che è convenzionale che possiamo poi godere del non convenzionale. Cioè, per discostarsi da una norma bisogna che la norma sia ben stabilita e ben chiara a tutti, una cosa che molti fanno finta di non capire con i risultati che tutti vediamo.









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